giovedì 22 marzo 2018

CHI HA PAURA DELLA SCIENZA E PERCHÉ

CHI HA PAURA DELLA SCIENZA? 

Chi non la capisce. Chi si rifiuta o ha paura di capirla o chi, faticando a comprenderla, semplicemente la allontana da sé con sospetto. Eppure, tutto ciò che ci rende la vita più lunga e sicura rispetto a secoli fa, più confortevole e meno gravosa, viene proprio di là: dalla scienza e dalla tecnologia, sua stretta parente. A giustificazione di chi ha paura della scienza, non si può e non si deve negare che essa può anche generare incubi: ma di chi è la colpa? Della scienza in quanto tale, o di eventuali scriteriati utilizzi?


È una paura antica, quella che taluno ha nei confronti della scienza, molto antica. Credo di non sbagliare affermando che essa è nata con la scienza stessa. Una paura nata assieme a Prometeo: col timore della punizione per un atto di intollerabile superbia, quello di rubare agli Dei il fuoco e la conoscenza. E come non pensare anche ad Adamo e a Eva e all'irrefrenabile desiderio di conoscenza che sarà all'origine di tanti guai! Meglio lasciarla perdere, dunque, la conoscenza e anche la scienza, il cui scopo è conoscere.

In ogni tempo, c'è stato chi ha associato la conoscenza all'idea del Demonio, a Mefisto: in molti roghi sono stati bruciati alambicchi, libri, elisir, maghi, streghe e anche gatti. Sempre la stessa paura. Quel che è curioso, oggi, è osservare questa stessa paura viaggiare alla velocità della luce, associata all'idea di complotti e cospirazioni, lanciata sulle ali veloci della fibra ottica, attraverso smartphone d’ultima generazione, come se chi teme maggiormente la scienza fosse proprio colui il quale maggiormente se ne serve.   

Ad ulteriore giustificazione di chi teme la scienza, bisogna ammettere che – con le dovute eccezioni – gran parte degli scienziati non sa, o non vuole perché questo costa molta fatica, comunicare il senso stesso della scienza. Accade così che in assenza di spiegazioni chiare sul senso e sul rigore della scienza, anche in un'epoca in cui tutti comunicano con tutti (o forse proprio per questo), la platea dei dubbiosi e dei sospettosi si allarga anziché assottigliarsi. E ciò è male.

Sono molte le ragioni per le quali si ha paura della scienza. Sono ragioni profonde, radicate nel fondo della psicologia umana, là dove tutte le paure covano. Ma prima di cercare in quegli anfratti della psicologia, va detta una cosa di una banalità sconcertante che fa da volano moltiplicativo a tutte le paure più profonde. Chi proclama verità, chi proclama di possedere la Verità, chi si arroga il diritto di accesso alla Verità attira inevitabilmente su di sé antipatia e odio. Non può essere altrimenti. È per questo che molti santi sono martiri, come fu lo stesso Gesù. Non si proclama impunemente la Verità.
Tralasciamo le Inquisizioni, i Savonarola, i Cromwell, i Puritani e tutti gli altri nemici ideologici della scienza, compresi ignoranti e retrogradi di professione. Diamo uno sguardo a ciò che cova laggiù, dove albergano le umane paure. Non si tratta di lanciare crociate contro gli infedeli e gli analfabeti scientifici: ogni guerra di religione – fede contro fede – è del tutto infruttuosa: si tratta, se mai, di capirne i motivi vicini e lontani.

Fonte: Associazione Luca Coscioni
Qui di seguito esporrò alcuni di quelli che ritengo i motivi più importanti. Li esporrò alla rinfusa perché, tra questi, non vedo un ordine gerarchico in quanto la paura è una questione individuale, che nasce dalle esperienze e dalla cultura di ciascuno.

Un timore nasce, paradossalmente, dalla stessa natura della scienza: quella di essere un sistema aperto”. Il fatto che essa, per definizione, metta in discussione ogni propria proposizione, ogni nuova conoscenza, ogni nuova verità, lascia – soprattutto in chi la conosce poco e male – non solo ampi margini di dubbio sulle pretese verità scientifiche”, ma una vera e propria giustificazione al dubbio. E quando il dubbio diviene sistematico (come giustamente è nella scienza più pura), questo genera a sua volta nell’interlocutore poco esperto un timore parimenti sistematico.  Nel proprio intimo, l’uomo è insicuro e ha bisogno di certezze: se non fosse così, come si giustificherebbe l’adesione di gran parte dell’umanità a fedi poggiate su dogmi che possono fare a meno della ragione? A fronte di un bisogno così forte di certezze, la scienza, con le sue verità mai complete e con gli inevitabili limiti della ragione, non è in grado di offrire saldi appigli, a meno di non trasformarsi essa stessa in apparato fideistico, cosa che è contraria alla sua ragion d’essere. Una Verità variabile è una verità dimezzata, il frutto di un relativismo che, se pur accettabile dalla ragione, lascia insoddisfatto il cuore, o lo stomaco, di chi ha bisogno di certezze.

Un altro motivo di messa in crisi della fiducia nella scienza è da ricercarsi in quella che è stata chiamata, metaforicamente, la perduta alleanza tra Dioniso e Apollo. Negli anni venti del secolo scorso, Oswald Spengler, nella sua monumentale opera ideologica Il tramonto dell’Occidente, si richiamava esplicitamente alla crisi tra la visione dionisiaca e quella apollinea della vita tratteggiata da Friedrich Nietzsche in La Nascita della TragediaApollo è razionale, misurato, equilibrato. È la parte razionale dell’uomo: è l’arte, lo schema, la filosofia, la scienza. Dioniso è la parte animale, selvatica, viscerale, dalle pulsioni e dal sentire irrefrenabile e indomabile. Egli è il cuore, lo stomaco, ma anche la musica, l’ebbrezza, l’entusiasmo. Prima di Nietzsche, anche Goethe aveva contrapposto due interpretazioni metaforiche del mondo: quella del meccanismo e quella dell’organismo. Il mito vorrebbe che all’origine del mondo Apollo e Dioniso fossero alleati e che l’uomo godesse dei frutti di tale alleanza. Quando tale alleanza cessò lo spirito dell’uomo ne risultò dilaniato, senza essere capace di trovare un equilibrio tra ragione e sentimento, tra cervello e cuore (o stomaco). Per Spengler, la crisi dell’Occidente sta nell’aver dato maggior credito alla ragione. Personalmente, io ribalterei la visione di Spengler e attribuirei lo smarrimento contemporaneo a un ritorno in grande spolvero dello stomaco nei confronti del cervello o, per usare i concetti di Goethe, del destino nei confronti della causalità. A me sembra che queste divisioni del mondo e delle sue interpretazioni non siano vecchiume filosofico”, ma appartengano costitutivamente all’uomo, fungendo da poli alternati di uno dei motori della civilizzazione, e come tali influenzando profondamente il modo di pensare anche dell’uomo contemporaneo. Chi teme la scienza e non è molto convinto delle sue verità parziali, lo fa anche perché la ragione non infiamma a sufficienza la sua anima dionisiaca. Questo è uno dei motivi per cui, in molte sfide, invece di risultare vincente a mani basse come sarebbe lecito aspettarsi, la scienza viaggia assai spesso ai margini della sconfitta latente.

In una società che da più parti manifesta delusione e scontento, Dioniso sembra avere maggior potere attrattivo rispetto ad Apollo. Quasi che il sentimento e il cuore sentano il richiamo di una perduta quanto inesistente Età dell’Oro, data dalla certezza del Destino contro l’incertezza di un sapere relativo. Si assiste, a quanto pare, a una rinascita della forza attrattiva dell’antimodernismo.

Apollo e Dioniso: la ragione e il cuore
Un altro comprensibile quanto banale motivo di timore, specie nelle persone che hanno esperienza di vita, deriva dalla scarsa fiducia che molto spesso l’uomo nutre nei confronti dell’uomo medesimo. Il cittadino mal governato, che è stato imbrogliato dai suoi pari – e non solo dai nemici, ma anche da amici e parenti – diventa vigile e sospettoso. Persa la virginale fiducia, egli diffida dei governi, delle istituzioni e dei poteri che queste rappresentano. E non è difficile scorgere, anche dietro la scienza più pura, la mano avida di poteri e istituzioni. La scienza stessa, così, finisce inglobata nel dubbio e nel sospetto cosmico e, a questo punto, non c’è più purezza che conti. Il danno è fatto per sempre. Quanto alla politica (vale a dire i politici) essa mostra spesso una tale incapacità a distinguere saggiamente il grano dal loglio (il buono dal cialtronesco), che questo non favorisce certo la fiducia nelle istituzioni e, a seguire, nella scienza.

Qui si dovrebbe aprire una piccola parentesi. Paura della scienza o paura degli scienziati? È come domandarsi se fanno paura le automobili, gli automobilisti indisciplinati, o gli ubriachi al volante? Se per scienza si intende l’insieme delle procedure e delle persone che studiano i meccanismi che sottostanno a ciò che della Natura abbiamo nozione, non credo che la scienza debba o possa far paura: e nemmeno se per scienza si intendono le nozioni ricavate dallo studio e i risultati pratici che sono stati resi possibili dalle nozioni medesime. Se per scienza intendiamo gli scienziati, allora è lecito – come accade talora con l’uomo – temere usi discutibili del sapere e del potere ad esso connesso. In tal caso, però, generalizzare è sbagliato: bisogna sorvegliare e giudicare i singoli casi. Tra l’altro, un dubbio e un sospetto generalizzato non fa che indebolire gli anticorpi sani propri della scienza, vale a dire quei meccanismi di verifica e di controllo che la scienza stessa è abituata a mettere in atto contro i cialtroni e i troppo scriteriati. Dubitare troppo della scienza diminuisce il potere di autocontrollo. Questo è un male.    

Il sospetto nei confronti della scienza non può che farsi più forte quanto lo scienziato, sentendosi sospettato e tante volte non essendo in grado di spigare la scienza in parole povere (e, in effetti, la scienza è davvero difficile da spiegare a chi non ne conosce i modi e il linguaggio), finisce per arroccarsi altezzosamente in quelle classiche torri d’avorio che offendono, suscitano odio e insospettiscono ancora di più. Chi guarda alla scienza con sospetto, e la teme, la accusa anche, non sempre a torto, di autoreferenzialità.

Ma chi, e come, e secondo quali parametri può giudicare la scienza? Ci sono due metri, separati e distinti, per giudicarne meriti e demeriti. Il primo, a disposizione di tutti, è giudicarne i risultati attraverso i vantaggi che ciascuno ne trae, direttamente o indirettamente. I vantaggi pratici conseguenti alle conoscenze scientifiche sono sotto gli occhi di tutti: se è vero che in linea teorica si può dubitare di tutto, non è molto onesto denigrare i vantaggi di cui si gode personalmente. Il secondo metro è riservato agli agenti chiamati in causa, gli scienziati stessi. Chi meglio di loro – esperti dei metodi, dei modi, dei processi, degli assiomi, delle procedure, dei limiti, e del linguaggio – può entrare nel merito e farsi giudice? È qui che entra, certamente, una certa autoreferenzialità. D’altra parte, sono proprio gli specialisti – l’agricoltore, il falegname, il meccanico, lo storico, il fisico, il pittore, e via di questo passo – a possedere il know-how e gli strumenti specifici per giudicare dell’operato dei propri simili. Tutti gli altri debbono accontentarsi di valutare i risultati. Certamente, qui c’è autoreferenzialità (e non può essere altrimenti). Chi è autoreferenziale, tuttavia, deve imparare a gestire egli stesso in modo equo e limpido i limiti alla propria autoreferenzialità usando, nei limiti del possibile, linguaggio e argomenti accessibili ai più. E qui entra in gioco la difficile questione della democraticità.


Una dichiarazione che ha suscitato dubbi, perplessità e, in taluno, indignazione, è stata l’affermazione da parte del medico Roberto Burioni il quale ha infranto un usurato tabù affermando che “la scienza non può essere democratica”. L’affermazione ha suscitato clamore soprattutto, credo, per i modi decisi con cui è stata posta: quanto alla sua essenza, invece, il clamore mi sembra ingiustificato. Se l’idraulico mi dice che il mio rubinetto è da cambiare, posso riunire la famiglia e decidere, a maggioranza, che il rubinetto non sia da cambiare ma, forse, l’opinione dell’idraulico - se onesto, ed eventualmente avvalorata da quella di altri idraulici di riconosciuta onestà - è più giusta di quella di tutta la mia famiglia messa insieme. Nella scienza funziona così. Le conoscenze acquisite (sempre migliorabili e, in quanto conoscenze, neutrali) si prendono per buone, fungono da punto di partenza per ulteriori ragionamenti, e ha poco senso - pur nel rispetto della libertà d'opinione - che vengano negate o contestate da chi non conosce in modo approfondito il tema specifico. Se mai, il processo democratico entra in gioco in seconda battuta, quando sulla base dei migliori dati possibili messi a disposizione degli specialisti, vengono assunte decisioni politiche di rilevanza sociale: è questo il campo in cui la democrazia esercita le proprie prerogative. In questa fase, il processo democratico dovrebbe e potrebbe avvalersi grandemente di una maggiore competenza e consapevolezza dei meccanismi sottesi alla scienza. Una scelta democratica e politica esercitata in condizioni di analfabetismo scientifico potrebbe avere conseguenze gravi. Una società democratica più competente e consapevole richiederebbe un’ampia revisione della formazione scolastica che non trascuri – ancora sull’onda di un'impostazione risalente a Benedetto Croce – la competenza d’ordine scientifico. Bisogna che l’educazione – nella scuola ma non solo – recuperi quel che c'è di essenziale nell'antica alleanza tra Apollo e Dioniso. Le due anime dell'uomo, le sue due nature, devono tornare a coesistere. L’equilibrio, la ragione e la misura di Apollo devono ricongiungersi con il cuore, l’ebbrezza e l’entusiasmo di Dioniso. È sbagliato disgiungere forma e sostanza, cuore e cervello, classico e scientifico: la separazione acuisce i limiti di ciascuna parte separata dall'altra e previene i compensi e gli stimoli reciproci. Nel numero # 329 di La Lettura del 18 marzo 2018, riferendosi ad una presunta narrazione mitologica – e pertanto poetica – sull’origine dell’uomo sviluppata dai primi rappresentanti di Homo sapiens, il fisico Guido Tonelli concepisce un legame profondo tra poesia, osservazione del cosmo, e cosmogonia; tra linguaggio poetico e il linguaggio formale delle scienze, sostenendo che proprio nella sintesi delle sue due nature consista il vero, autentico, e unico spirito dell’uomo.

domenica 11 marzo 2018

Esercizi di epistemologia applicata: DOMANDE E RISPOSTE SULL'EVOLUZIONE – VI^ parte

In questa sesta puntata di Domande e Risposte sull’Evoluzione, si affronta un tema dai contorni epistemologici arditi: ci si domanda – e si risponde – sull’eventualità che elementi puramente mentali e trasmessi per via culturale, nella fattispecie la spiritualità e la religione, abbiano un qualche ruolo nella storia evolutiva di Homo sapiens. 



Domande e Risposte
# 11

Domanda 11. Per quel che ne sappiamo, religione e spiritualità sono elementi connaturati a tutte le culture che si sono sviluppate nella specie umana. Questi elementi sembrano avere avuto un rilevantissimo ruolo di coesione sociale (anche con fenomeni di costrizione e condizionamento all’agire).
La coesione sociale indotta dalla religione (o dalla necessità universalmente diffusa di doversi riconoscere in una forma di religione che potesse rispondere alle domande considerate fondamentali) è una forma di socializzazione (o un’estensione delle cure parentali) con una qualche rilevanza nel determinare scelte o comportamenti adattativi di qualche valenza nell’ambito della selezione?

Risposta 11. Alcuni aspetti di questo problema sono considerati da Giorgio Cosmacini nel suo libro La religiosità della medicina. Dall’antichità a oggi (Laterza 2008), citando le parole del Premio Nobel Christian de Duve, che ha scritto: Il sentimento religioso è profondamente radicato nella nostra stessa natura, forse inciso in essa dalla selezione naturale”. “La religiosità antropologicacommenta perciò Cosmacini – sarebbe dunque un carattere primario e originario, un vero e proprio distintivo connaturato all’uomo di ogni tempo e ogni luogo: lo proverebbe la valorizzazione dell’homo religiosus oggi messa in atto da più parti. È una valorizzazione condivisibile se intesa come rivalutazione piena di un alto e sublime sentire e non come riaffermazione egemonica delle religioni rivelate o di questa o di quell’altra tra esse”.



Mi sembra, perciò, che de Duve abbia detto qualcosa di rilevante per questa domanda quando afferma che il sentimento religioso potrebbe essere inciso nella selezione naturale. Se si considerano le cose dal punto di vista della sopravvivenza della specie umana, è chiaro che il sentimento religioso ha dato un importante contributo alla coesione sociale e alla affermazione di gruppi di individui, anche a scapito della sopravvivenza dei singoli. Ma, se facciamo una valutazione sulla base del numero di membri della specie umana nelle varie tappe della storia, è dubbio se il numero di individui salvati grazie alla coesione sociale abbia compensato o no quelli deceduti nelle guerre di religione. La popolazione della terra è considerevolmente aumentata nell’ultimo secolo, certamente più per merito della scienza che della religione. E, tuttavia, è vero che una giustificazione materialistica, o fisicalistica, non basta a dar conto di tutto questo, dato che principi etici, che presuppongono, anche negli atei dichiarati, una connotazione comunque religiosa, si sono fatti strada considerando i progressi della scienza, dal postulato di obiettività di Monod all’ispirazione internazionale e pacifista della comunità scientifica.
La mia conclusione è che non è vero che la religiosità sia importante per l’uomo perché conferisce coesione sociale, e quindi come attributo vantaggioso nel corso della evoluzione biologica, ma che sia un attributo fondamentale della umanizzazione, della nascita del mondo 3 di Popper (per il mondo 3 di Popper, vedi al post precedente).
Questo è un caso particolare di quella che mi sembra una regola generale. L’evoluzione culturale agisce anche in contrasto con l’evoluzione biologica, sacrificando gli individui a favore delle idee. Ci si è spesso domandati perché la specie umana è l’unica a combattere vere e proprie guerre. La mia risposta è perché quella umana è l’unica specie che ha una cultura, e i contrasti tra le idee sono più importanti dei contrasti per i bisogni elementari degli individui in carne ed ossa
Perciò, dal punto di vista della selezione biologica degli umani non mi pare che la religione abbia importanza, mentre ne ha moltissima dal punto di vista dell'evoluzione culturale. L’affermazione di quei principi di solidarietà, altruismo e carità che possono salvare la vita ai più deboli, potrebbe esercitare un’influenza sull'evoluzione della specie umana, analoga a quella delle cure parentali. Ma, anche in questo caso, nella storia dell’umanità spesso questi principi sono stati sopraffatti dall’intolleranza e dal fanatismo degli integralisti, che hanno scatenato guerre nelle quali i morti sono stati i più giovani e robusti.

Domande e Risposte
# 12

Domanda 12. Religione, spiritualità (e, forse, le ideologie) possono essere considerati come fenotipi aleatori e impermanenti ma trasmissibili (non necessariamente come carattere dominante) ad ereditarietà di tipo lamarckiano con una qualche valenza adattativa?

Risposta 12. Rispondendo alla domanda precedente, ho affermato che va distinta la religione, come fattore di coesione di gruppi sociali, dalla sua dimensione spirituale. Ribadisco che considero che l’evoluzione culturale ha luogo con un meccanismo darwiniano. Perciò credo che la religiosità e la cosiddetta “spiritualità” siano pulsioni antropologiche fondamentali, connesse con l’identità stessa della specie umana, che perciò rappresentano un fortissimo fattore di selezione. Diverso è il caso delle ideologie politiche, che sono generalmente selezionate da esigenze che tendono a mutare nel tempo, così come fa l’ambiente sulla terra nei riguardi delle specie biologicamente definite.
Prendiamo l’esempio del marxismo, che fu selezionato con entusiasmo dai lavoratori in un’epoca di sfruttamento inumano del cosiddetto proletariato. Nel tempo, anche per merito dei movimenti politici ispirati al marxismo, le condizioni dei lavoratori sono molto migliorate. Per di più, a causa della sua logica lamarckiana, la teoria ha prodotto regimi che hanno tradito le sue promesse. Perciò, al giorno d’oggi, anche nei movimenti politici di sinistra il marxismo non è affermato come ideologia principale di riferimento e anche la sinistra più radicale, che non lo ripudia, sostiene che in passato sia stato male interpretato. Mi pare che esista una analogia stretta con il meccanismo darwiniano della emergenza di una specie e della sua decadenza. E comunque, se è vero che l’esistenza di movimenti politici di ispirazione marxista ha portato a un miglioramento delle condizioni dei lavoratori anche in paesi nei quali questi movimenti non si sono affermati, e quindi alla riproduzione di più persone appartenenti a questa classe sociale, credo che sia lecito dire che questa teoria, come altre, ha avuto una valenza adattativa sulla specie umana.


Si rifletta sul fatto che Marx ed Engels enunciarono una teoria molto originale, analoga a una mutazione, frutto largamente della loro immaginazione creativa. E il successo del marxismo non avvenne tanto perché fosse privilegiato nella comunicazione (anzi, si può supporre che la propagazione della teoria fosse ostacolata da coloro che la avversavano), ma perché molti, e in vaste parti della terra, furono profondamente persuasi dal suo messaggio, in analogia con la riproduzione dei geni.
Si può contestare la componente libera e immaginativa che fu all’origine del marxismo, che fu preceduto da un lato dal socialismo utopistico e dall’altro dalla filosofia hegeliana. Ma anche nell’evoluzione biologica i geni mutati non emergono dal nulla e derivano da altri geni. Perciò ribadisco il mio convincimento che l’evoluzione culturale sia darwiniana.
Qualche parola sulle ideologie, che sono menzionate nella domanda. Oggi è di moda prendersela con le ideologie considerate generalmente ispiratrici di cattive azioni. È certamente vero che un sistema di idee “chiuso”, da accettare o rifiutare in blocco, è un ostacolo a quella libertà di pensiero che è fondamentale perché abbia luogo la evoluzione culturale. Ma spesso, in questa polemica contro le ideologie affiora un’ostilità verso le idee, che vengono considerate superflue e da sostituire con il senso comune o con l’aderenza alla tradizione (da qui la scarsa popolarità degli intellettuali). A parte il fatto che anche questa è un’ideologia, sono convinto che senza idee l’umanità non possa avere un’evoluzione culturale e non possa sviluppare la sua fondamentale caratteristica distintiva.




venerdì 2 marzo 2018

Esercizi di epistemologia applicata: DOMANDE E RISPOSTE SULL'EVOLUZIONE – V^ parte

In questa puntata di Domande e Risposte sull’Evoluzione, il professor Claudio Rugarli risponde a una domanda che sta a metà strada tra la domanda vera e la provocazione, e che rientra in un dibattito che dà per scontato che si possano individuare reali analogie tra l’evoluzione biologica e quella culturale. Molto appropriatamente, il Prof. Rugarli mette in guardia dall’avventurarsi in analogie troppo strette tra due entità così diverse e, richiamandosi agli scritti di Popper e Eccles, puntualizza che le due evoluzioni riguardano mondi diversi.  



Domande e Risposte
# 10

Domanda 10. Ammettendo che la cultura (ad esempio le cure parentali) possa avere un ruolo nell’evoluzione dell’uomo, quanto c’è di darwiniano nella cultura che possa intervenire sui meccanismi selettivi e quanto c’è di lamarckiano nella trasmissione verticale e nella diffusione orizzontale di elementi acquisiti?

Risposta 10. Bisogna distinguere tra i meccanismi di evoluzione della cultura e quanto la cultura influenzi l’evoluzione biologica. Per ora considererò il primo aspetto del problema, convinto come sono che l’evoluzione culturale è darwiniana e non lamarckiana. Ritorno su una raccomandazione già fatta: non bisogna forzare troppo le analogie tra cultura e biologia. Quello che è importante è il meccanismo del caso (la libertà per la cultura) e la necessità. Questo permette di rifiutare meccanismi deterministici in ogni tipo di evoluzione e di superare in questo campo una visione ristretta del principio di causalità. Ma le differenze tra le due evoluzioni restano importanti e forse per questo i cultori delle scienze umane si interessano poco a queste analogie.
Per cominciare, l’evoluzione biologica riguarda regioni definite del mondo fisico, mentre l’evoluzione culturale non appartiene allo stesso mondo. Non oso avventurarmi in una discussione filosofica, ma, per comodità di discorso, ricordo una affermazione di Karl Popper in un libro scritto a quattro mani insieme con Sir John Eccles, neurofisiologo e Premio Nobel per la Medicina (L’io e il suo cervello, Armando, 1982). Sostiene Popper che, in realtà, esistono tre mondi: il mondo 1 è quello fisico, oggetto della scienza; il mondo 2 è quello delle disposizioni umane, oggetto della psicologia; e il mondo 3 è quello dei prodotti della cultura umana. È chiaro che l’evoluzione biologica si svolge nel mondo 1, mentre quella culturale ha luogo nel mondo 3.


Questa differenza deve mettere in guardia contro analogie troppo strette tra le strutture elementari che evolvono in due mondi tanto diversi. Nel mondo 1 è facile individuarle in segmenti di acidi nucleici, che sono i geni, ma nel mondo 3 è impossibile fare un’operazione analoga. L’evoluzione in questo caso può riguardare tanto espressioni complesse quanto semplici parole, quello che conta è che siano comunicabili e trasferibili ad altri che le acquisiscono. Da qui il sospetto, che mi sembra implicito nella domanda, che alla fine l’evoluzione culturale sia lamarckiana, dato che il più popolare principio del pensiero di Lamarck è la trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti. Ma il punto sta nelle modalità di acquisizione: nel lamarckismo sta in una azione causale dell’ambiente, nel darwinismo nella selezione tra varianti derivate casualmente da errori nella replicazione dei geni. Se vogliamo azzardare un’analogia per quanto riguarda l’evoluzione culturale, possiamo dire che le idee, per limitarci a queste, si replicano in quanto non solamente sono trasmesse, ma anche sono liberamente accettate. È l’accettazione che è l’equivalente della riproduzione dei geni, e non la sola conoscenza. Per fare un esempio che viene a proposito, io sono benissimo a conoscenza della teoria del creazionismo, che sostiene che il mondo è stato creato circa 10.000 anni fa, più o meno come è adesso, inclusi i reperti fossili che sembrano dimostrare il contrario, ma non accetto questa idea, che perciò in me, e nella quasi totalità di coloro che sanno di scienza, non si riproduce. Perciò affermo che l’evoluzione culturale è darwiniana.

Questo non significa che non vi siano persone che credono nel lamarckismo culturale. Non si deve dimenticare che l’essenza della teoria di Lamarck sta in una ricerca metafisica di perfezione da parte di tutti gli organismi, che li induce a trasformarsi sotto la spinta di fattori ambientali.  Con un’ispirazione analoga, i regimi totalitari del secolo scorso si sono illusi di plasmare l’evoluzione culturale, limitando la libertà di giudizio di coloro cui veniva trasmesso il loro verbo. L’idea sottintesa a questa tecnica è che, in assenza di idee alternative, la sola idea comunicata finirà anche per essere accettata. Invece, se l’accettazione avviene in queste condizioni, non è autentica e può essere facilmente smentita dai fatti. Noi abbiamo avuto l’esperienza del regime fascista e possiamo giudicare bene quanto questa idea fosse sbagliata e quanto abbia fallito. Dopo venti anni in cui non si è fatto altro che imprimere idee bellicose nelle teste degli italiani, si è visto come sono andate le cose quando si è fatta veramente una guerra importante. A proposito delle disavventure italiane nella guerra contro la Grecia, Gerhard L. Weinbergnella sua monumentale storia della seconda guerra mondiale (A world at arms. A global history of world war II, Cambridge University Press, 1994), ha scritto: "Chiunque abbia visto il terreno sul quale i soldati italiani avevano combattuto durante la prima guerra mondiale riconoscerà che essi sono del tutto capaci di battersi valorosamente nelle circostanze più difficili; ma in un esercito nel quale l’intelligenza e il rango gerarchico erano distribuiti in proporzione inversa, non ci si poteva aspettare niente se non un completo disastro. Due volte i comandanti del fronte italiano furono sostituiti, ma tutto questo non servì a niente. Due decenni di regime fascista avevano lasciato l’Italia con un esercito peggio guidato, equipaggiato e addestrato rispetto a quello del 1915" (pag. 210, la traduzione è mia). Si può ribattere che Hitler e i tedeschi furono meno inefficienti, ma fecero anche cose orribili e della ideologia nazista non è rimasto niente.

Meno lamarckiani, e su scala più modesta, sono i tentativi di influenzare le idee della gente in regimi liberi e democratici nei quali i mezzi di comunicazione di massa siano nelle mani di pochi e si adottino mezzi di propaganda che abbiano mutuato le tecniche della pubblicità. Ma questi, anche se convenienti nel breve periodo per coloro che li mettono in atto, sono solo accidenti minori nell'evoluzione culturale.