mercoledì 19 dicembre 2018

L’UCCELLO DEL PARADISO – PARADISAEA APODA

Uccello del Paradiso

In uno dei precedenti post (L'Uccello del Paradiso: Una Metafora) s’era s'era già discusso della faccenda dell’Uccello del Paradiso per sottolineare come anche gli esseri umani più intelligenti del mondo – tali, nel passato, si ritenevano infatti gli Europei – cadevano vittime di malintesi e della loro presunzione.  

Qui si riprende la questione per approfondirne il ragionamento. Per farlo, si useranno le parole che Alfred Wallace (il co-scopritore, assieme a Charles Darwin, dell’evoluzione degli esseri viventi). Le parole di Wallace sono tratte da osservazioni dirette effettuate tra il 1856 e il 1860 e da notizie storiche pubblicate nel 1869 in L’Arcipelago Malese. I passi qui riportati sono alle pagine 443 e 549-554 dell’edizione MacMillan del 1872.

Ecco come Wallace descrive la strana storia dell’uccello senza zampe.

Disegno di antico esemplare di Uccello del Paradiso
"Quando i primi viaggiatori provenienti dall’Europa arrivarono alle Molucche in cerca di chiodi di garofano e di noce moscata, che erano allora spezie ricercate e preziose, furono mostrate loro le pelli essiccate di uccelli talmente strani e meravigliosi da suscitare l’ammirazione anche nei peggiori pirati in cerca di ricchezze. I commercianti malesi li chiamavano Manuk dewata, vale a dire Uccelli degli Dei. I Portoghesi, vedendo che essi non avevano né zampe né ali e non essendo in grado di raccogliere informazioni veritiere su di essi, li chiamarono Passeri del Sole. I più istruiti Olandesi, che erano in grado di scrivere in latino, li chiamarono Avis Paradiseus, vale a dire Uccelli del Paradiso. Era stato l’esploratore olandese Jan Huighen van Linschoten (1563-1611) a dare loro questo nome nel 1598, affermando che nessuno aveva mai visto vivi tali uccelli in quanto essi vivevano in cielo ruotando attorno al sole e non scendevano mai a terra se non quando morivano. Perciò non avevano né ali né zampe, come si poteva ben vedere negli esemplari portati in India e più raramente in Olanda  nel resto d'Europa. Oltre un secolo dopo, il signor William Funnel, che aveva accompagnato il Capitano William Dampier nel suo giro attorno al mondo [1703-1706], scrisse di avere visto questi uccelli nell’isola di Ambon e che essi, arrivati all’isola di Banda per mangiare le noci moscate di cui erano ghiotti, ne rimanevano intossicati cadendo a terra privi di sensi e qui venivano uccisi dalle formiche. Quando, nel 1760, Linneo diede a una delle specie più grandi di questi uccelli il nome di Paradisaea apoda (Uccello del Paradiso senza i piedi) nessuno in Europa aveva ancora mai visto un esemplare perfettamente conservato di tali uccelli e di essi non si sapeva assolutamente nulla. Ancora oggi, un secolo dopo, alcuni libri affermano che essi migrano annualmente a Ternate, Banda, Ambon, mentre è vero il contrario, vale a dire che in dette isole questi uccelli, allo stato selvatico, sono del tutto assenti non meno che in Inghilterra … Nell’arcipelago malese, questi uccelli sono chiamati Burong mati, vale a dire Uccelli Morti, facendo così comprendere che nemmeno i commercianti malesi ne avevano mai visto uno vivo".

Acconciatura di piume di Uccello del Paradiso nella tradizione dei cosiddetti “selvaggi”
Ed ecco come, sempre con le parole di Wallace, i nativi si procuravano i volatili e li lavoravano per poterli commercializzare.

"Sull’isola di Aru, i nativi cacciano gli Uccelli del Paradiso usando arco e frecce. La punta di queste è sagomata a forma conica come una tazzina da tè in modo da non trafiggere l’uccello  (la qual cosa rovinerebbe le penne) ma di metterlo fuori combattimento con la sola violenza del colpo. Poiché questi uccelli si riuniscono in gran numero su certi alberi, il cacciatore si apposta su uno di essi prima che sorga il sole, nascosto sotto una coltre di foglie. All’alba, quando gli uccelli si riuniscono, il cacciatore scocca i suoi dardi. La caccia continua fintanto che gli uccelli non si rendono conto della presenza del cacciatore e fuggono. A terra, un ragazzino raccoglie gli uccelli intontiti dal colpo e li uccide immediatamente.
Per conservare gli uccelli catturati, per prima cosa i nativi tagliano loro le ali e le zampe. La pelle viene tagliata lungo tutto il corpo fino al becco e viene rimosso tutto lo scheletro lasciando solo il cranio. Viene poi infilato nel corpo uno stecco che fuoriesce dalla bocca e il corpo viene riempito di foglie. Avvolto il tutto in foglie di palma, l’uccello viene fatto seccare in un affumicatoio. Così facendo, la testa, che è abbastanza grande, si riduce a un nonnulla, e anche il corpo diviene molto più piccolo e corto, tutto ciò snatura le vere proporzioni dell’uccello vivo ma dà maggiore preminenza al piumaggio. Questo oggetto è un articolo di commercio locale assai importante in Oriente e le piume vengono spesso usate per i copricapo delle donne".
Acconciatura femminile occidentale certamente non meno “selvaggia”
Questa affascinante storia dovrebbe veicolare due insegnamenti: il primo, di carattere generale, sui processi cognitivi fondamentali dell’uomo. Il secondo, di carattere epistemologico, sul come il pensiero scientifico occidentale si innesti su tali processi cognitivi fondamentali.

Sulle cause e sugli effetti.
L’esperienza mostra che certe cause (note a chi osserva) producono certi effetti. Reciprocamente, certi effetti (evidenti a chi osserva) sono necessariamente provocati da certe cause, siano queste note o ignote. Se un uccello è privo di ali e di zampe, debbono esservi cause che spiegano il fenomeno osservato. La mente, a questo punto, ipotizza e costruisce le cause ignote in modo tale che la relazione causa-effetto si autosostenga. Questo sistema cognitivo fondamentale (ragionamento causale) non è esclusivo del razionalismo scientifico ma è condiviso con altri “saperi” facenti capo, per esempio, alle pratiche magiche e alle credenze mitologiche o religiose. Dato un fenomeno, vi sono cause necessarie che lo producono. La conoscenza non si limita a descrivere il fenomeno come tale, ma ambisce a riconoscerne le cause efficienti. Se un sasso lasciato cadere finisce al suolo, una causa (scientifica) può essere una forza chiamata gravità, ma un’altra causa (parascientifica o mitologica) è che la terra chiama a sé la terra, come l’aria chiama a sé l’aria o il fuoco chiama a sé il fuoco. Se mi viene una gastroenterite, la causa (scientifica) è che sono stato colpito da un enterovirus, mentre la causa magica è che qualcuno mi ha fatto il malocchio, e la causa religiosa è che vengo punito perché ho peccato. Il ragionamento – il modello cognitivo – è sempre lo stesso: nella scienza, come nella magia, come nelle credenze religiose. Ciò che cambia (e che fa una grande differenza) è il quadro culturale di riferimento e il metodo di cui ci si serve applicando quel modo di ragionare. Nulla toglie che il soggetto pensante presti fede contempraneamente a più quadri di riferimento: la scienza per spiegare le cause di certi fenomeni, la religione per darne conto di altri, e forse anche la magia, per quegli ambiti dell'ignoto ove scienza e religione non osano avventurarsi. Un teorico del management e dell’organizzazione (Russell Lincoln Ackoff, 1919-2009) avrebbe affermato che "Meno comprendiamo un fenomeno, più variabili cerchiamo per spiegarlo". Questo meccanismo cognitivo universale è alla base della spiegazione data alla faccenda degli uccelli senza zampe.

I condizionamenti culturali e psicologici giocano un ruolo assai rilevante nel decidere quale fra le potenziali cause di un fenomeno prendere per buona. Ogni epoca e ogni cultura ha i propri condizionamenti che indirizzano le scelte. Si può considerare il fatto che in un'epoca in cui la religione, il magico e l’esoterico potevano anche prevalere sul freddo ragionamento pratico e scientifico (quest’ultimo allora agli albori), la causa della assenza delle zampe in quei magnifici uccelli provenienti dalle mitiche regioni d’Oriente richiamasse situazioni e poteri eccezionali, fino ad allora mai visti nel nostro ristretto mondo. Pertanto, alla spiegazione più ovvia che le zampe fossero state tagliate per motivi pratici di conservazione, fu preferita una causa più extramondana, quella di un uccello paradisiaco, che vola perennemente attorno al sole e che non si posa mai a terra. 

Linneo
Se questo era il condizionamento culturale in un’Europa per molti versi ancora erede del sapere medioevale, si può anche comprendere come anche il grande e sapiente Linneo, medico del Re di Svezia, Direttore dei Giardini Botanici Reali, e rivoluzionario del sistema di classificazione nell’ambito delle scienze naturali, sia potuto cadere nell’errore. 
Linneo aveva proposto di sostituire le complesse classificazioni naturalistiche allora in uso (che erano sostanzialmente delle lunghe descrizioni) con due soli nomi: il primo indicante il genere (per esempio "Homo", nel caso dell’uomo) e il secondo indicante la specie (per esempio "sapiens", nel caso della nostra specie). In tal modo, egli aveva dotato le scienze naturali di una terminologia sistematica semplice e universale, rendendole meno descrittive e avvicinandole al mondo delle scienze esatte. Nel caso dell’Uccello del Paradiso, il genere (del tutto nuovo e sconosciuto) fu chiamato Paradisaea e la specie (sconosciuta anch’essa) fu chiamata apoda, indicando con ciò lo strano caso dell’uccello senza i piedi. Ecco come il pensiero scientifico, ancora condizionato da una cultura prescientifica, si innestava nel sistema cognitivo universale dell’uomo che ricerca (a costo di inventarle di sana pianta) cause che rendano conto degli effetti che sono sotto i nostri occhi. 

Per fortuna, a differenza di altri saperi più dogmatici, la scienza contiene in sé gli anticorpi per ravvedersi, sostituendo, quando vi siano nuovi elementi probanti, cause divenute insostenibili con cause più plausibili alle quali, però, il termine di “verità” non si addice, poiché lo statuto della scienza stabilisce che ogni spiegazione possa essere sempre sostituita da un'altra che si dimostri migliore.
L’ultimissima notazione è la seguente curiosità: la dizione linneana, Paradisaea apoda, definisce tutt’ora una specie di Uccello del Paradiso e la si può trovare sui cartellini che contrassegnano quella particolare specie nei vari musei di Storia Naturale del mondo. Si può conservare memoria dei propri errori per evitare di ripeterli.




domenica 9 dicembre 2018

DOMANDE E RISPOSTE SU L'EVOLUZIONE - XVIII^ parte

DIVENTARE UMANI: LA RADICE DELL’ANIMA

In questa puntata si affronta un tema rischioso, quello dell'origine evolutiva delle caratteristiche che riteniamo esclusive dell'uomo: etica, spiritualità, anima. Il professor Rugarli risponde a una articolata domanda su questo tema quasi spericolato in cui si tenta una sintesi quasi impossibile tra biologia e filosofia.


Domande e Risposte
# 27

Domanda 27. Etica, spiritualità/religione e anima sono elementi che l’uomo si auto-attribuisce in modo esclusivo, ponendo nel possesso di questi elementi il carattere distintivo dell’essere “umani”, separati e distinti da tutti gli altri esseri viventi e ad essi superiori. Da dove vengono queste caratteristiche? Come si sono evoluti fenotipi così distintivi?

L'australopiteco più famoso: Lucy
Riproduzione del Museo di Storia Naturale di Huston, Texas
A un certo punto del tempo e dello spazio un australopiteco, o un suo discendente, avrà sentito dentro di sé esigenze (e paure) che nessun altro organismo prima di lui doveva aver provato. Possono queste nuove esigenze (che sono metafisiche pur avendo radici nell’esperienza concreta) essere tradotte in domande e in risposte prima del possesso di un adeguato linguaggio simbolico? Non è detto che addurre l’esempio del bambino – che certamente si rappresenta determinate esigenze prima di possedere un linguaggio per esprimerle – sia un giusto esempio probatorio. Infatti, il bambino, a differenza di altri animali, se ancora non possiede il vocabolario, già possiede però la struttura linguistico-mentale per la rappresentazione simbolica. Quindi, a monte della “nuova esigenza” e a monte del linguaggio necessario per rappresentarla, deve essersi formata una struttura linguistica idonea alla rappresentazione simbolica e, contemporaneamente, deve essersi formata una struttura di pensiero in grado di rappresentare la “coscienza di sé, la coscienza di sé rispetto agli altri, la coscienza di sé e degli altri rispetto al tempo”. Nel contempo, deve essersi formata una serie di “esigenze” (o risposte) relative alla collocazione di questo “sé cosciente nel tempo”, in relazione a tutto il resto.
Una certa coscienza di sé esiste certamente in molti animali, come pure esiste – soprattutto negli animali sociali – la coscienza di sé in rapporto agli altri. Una certa coscienza del tempo sembra essere presente in alcuni mammiferi, come pure la consapevolezza (apparentemente accompagnata a dolore) della morte degli altri individui della propria specie. Inoltre, gli animali sociali rispettano regole di comportamento anche complesse: regole da cui dipende la stabilità e la sopravvivenza del gruppo. Queste regole rappresentano verosimilmente il nucleo originario di una struttura neurocomportamentale la cui evoluzione darà luogo alla comparsa di “doveri e valori” (etica) cui attenersi nel comportamento relazionale. La spiritualità e l’etica nascerebbero pertanto dall’estendersi di strutture neurali di tipo linguistico, adattate, cooptate o quantomeno collegate, con la facoltà di pensare e di esprimere formalmente il pensiero. In questo contesto, l’anima si sarebbe sviluppata come sovrastruttura ideale (una categoria del pensiero) resa possibile da una concreta struttura fisica neurolinguistica, una categoria del pensiero in cui far confluire sostanzialmente l’esperienza del male e l’idea del peccato, ovvero quegli elementi del comportamento propri dell’uomo ma che sono contrari alle regole di comportamento codificate dal gruppo.
La spiritualità è figlia evolutiva della coscienza, coscienza che non viene da sola ma accompagnata da infinite domande. Come sono fatte le cose? (nascita della conoscenza). Dove vanno le cose? (nascita del culto dei morti). Da dove vengono le cose? (nascita delle cosmologie e delle mitologie). C’è un ponte tra le cose che sono, quelle che sono state e quelle che saranno? C’è un senso o un disegno in tutto ciò? (nascita dell’esigenza religiosa).      

Etica e Diritto
L’etica e il diritto, ma anche il peccato e l’anima sono figli evolutivi di modelli di comportamento selezionatisi nel tempo. Dal conflitto tra gruppi si selezionano (si percepiscono e si trasmettono come “buoni”) i comportamenti utili al gruppo: solidarietà, coesione, collaborazione. I comportamenti inutili o dannosi per il gruppo sono percepiti e trasmessi come inopportuni, dannosi, “cattivi”. Il consenso sociale sostiene i comportamenti utili; il diritto sancisce pene per i comportamenti dannosi, e il dissenso sociale per questi comportamenti genera l’idea di peccato, vergogna, inferno.
Questa visione biologica dell’evoluzione della spiritualità e dell’anima non è infinitamente lontana (a volte è anzi sorprendentemente vicina) ad altre modalità di pensiero: da quello metafisico a quello teologico.  
Aristotele e Platone suddividevano le proprietà dell’anima in vegetativa, propria di tutti gli esseri viventi; sensitiva, propria di tutti gli animali; intellettiva o spirituale, propria della stirpe umana. La razionalità è stata variamente intesa come capacità di coscienza (il cogito di Descartes), di giudizio (Kant), di azione sociale (Hobbes), di elaborazione simbolica e linguistica (Cassirer), di fabbricazione di artefatti (Bergson). 
Joseph le Conte, geologo americano della fine del XIX secolo, afferma che il principio vitale delle piante e l’anima dei bruti sarebbero stadi della vita embrionale dello spirito, che conferisce all’uomo la ragione per immaginare e definire la propria libertà e la propria immortalità (Le Conte J. Evolution and its relation to religious thought. The relation of Man to Nature. 1887: citato in Antonio Fogazzaro. Per un recente raffronto delle teorie di Sant'Agostino e di Darwin circa la Creazione. Libreria Editrice Galli, Milano 1892).
Il gesuita e paleontologo Pierre Teilhard de Chardin, in Il fenomeno spirituale” (1937), descrive così la nascita del diritto, della morale, e del fenomeno spirituale nei gruppi umani primitivi: «In gran parte, la morale è nata come una difesa empirica dell’individuo e della società. Non appena gli esseri intelligenti sono venuti a contatto, dato che vi erano attriti, hanno sentito il bisogno di proteggersi contro i reciproci soprusi.  E non appena si è rivelata, empiricamente, un’organizzazione che garantiva a ciascuno più o meno ciò che gli spettava, questo stesso sistema ha sentito il bisogno di garantirsi a sua volta contro i mutamenti che fossero venuti a rimettere in questione le soluzioni accettate, e turbare l’ordine sociale stabilito», una sorta di genesi dello spirito sotto la spinta delle leggi della materia.  Teilhard de Chardin va anche oltre coniando la Legge di Complessità e Coscienza: la materia, secondo questa legge, avrebbe un’insita tendenza a diventare sempre più complessa e, allo stesso tempo, ad accrescere la quantità di (auto)-coscienza (L'avvenire dell'uomo (1959), Il Saggiatore, Milano 1972). 
Il poliedrico ricercatore americano Stuart Kaufmann è giunto, attraverso un percorso scientifico tutt’affatto diverso, a proporre un concetto non molto dissimile da quello enunciato da Teilhard de Chardin. Nell’universo l’ordine emerge dal disordine e i crescenti livelli di complessità fanno a loro volta emergere la coscienza. È solo in quest’ottica, ovvero riconoscendo la presenza della coscienza nell’universo, che si può ritenere che esista un vantaggio selettivo nel determinarsi della coscienza e del libero arbitrio (Stuart Kaufmann. Reinventing the Sacred, Basic Books, Perseus Books Group, New York, 2008; Stuart Kaufmann. Five problems in the philosophy of mind. 2009, Vedi al LINK). 
Infine ci possiamo riferire a San Tommaso attraverso la mediazione di Antonio Fogazzaro. Considerata l’ontogenesi dell’anima umana descritta da S. Tommaso non in conflitto con la teoria darwiniana [vedi al post DOMANDE E RISPOSTE SU L'EVOLUZIONE - XV^ parte], Antonio Fogazzaro si domanda: «Se il corpo umano è derivato da un organismo inferiore di specie diversa, anche l’anima ha origine da un’anima inferiore, cui un sopraggiunto complemento di perfezione ne muterebbe la specie» (Fogazzaro A. Per un recente raffronto delle teorie di Sant'Agostino e di Darwin circa la creazione. Galli, Milano, 1892, p. 85).
Dopo tutto ciò, la domanda che emerge è molteplice: esiste un punto di discrimine tra l’uomo e il non-ancora-uomo? Un punto in cui emerge la spiritualità e il non-ancora-uomo diventa uomo dotato di anima? L’Anima è una nuova qualità (un nuovo fenotipo) emersa dall’evoluzione dell’aggregazione della materia? Qual è, ci chiediamo con Kaufmann, l’utilità evolutiva o il vantaggio selettivo di avere una coscienza e un’anima?

Risposta 27. Questa è una domanda filosoficamente ambigua perché non si capisce da quale prospettiva viene posta. A prima vista sembra che la posizione filosofica di partenza sia il materialismo, o almeno il fisicalismo. Questo viene in mente leggendo la domanda: “L’Anima è una nuova qualità (un nuovo fenotipo) emersa dall’evoluzione dell’aggregazione della materia?”.  O frasi come “La spiritualità e l’etica nascerebbero pertanto dall’estendersi di strutture neurali di tipo linguistico, adattate, cooptate o quantomeno collegate con la facoltà di pensare e di esprimere formalmente il pensiero”. Tuttavia, nella premessa alla domanda sono citati filosofi non certamente definibili materialisti.
Non ho idee chiare in proposito e perciò non mi spingo a pronunciarmi sulla natura dell’anima (o spirito).  Vorrei tuttavia rilevare che esiste una certa somiglianza di stile tra il pensiero materialistico e quello di cattolici come Teilhard de Chardin e Antonio Fogazzaro, nel senso che hanno tendenza a mescolare due dei tre mondi di Popper (dei quali abbiamo già parlato rispondendo a un’altra domanda), quello fisico, che è di pertinenza della scienza, e quello che si svolge nell’ambito dell’attività intellettuale dell’uomo, che si pone in una dimensione completamente diversa.
Ne è un esempio la posizione ufficiale della Chiesa sulla fine della vita, nella quale non si fa distinzione tra vita biologica e vita umana.
Personalmente non sono materialista e non credo che la realtà possa essere totalmente spiegata con un approccio fisicalista. Perciò, l’idea di un’evoluzione dell’anima di pari passo con la evoluzione biologica mi sembra senza senso. L’anima, se così possiamo chiamarla, non è l’oggetto, ma solo il substrato dell’evoluzione culturale. Le strutture neurali sono solo il mezzo con il quale si sviluppa questa evoluzione, ma hanno un’esistenza distinta da quella dei suoi prodotti. Perciò penso che esista un punto di discrimine tra l’uomo e il non ancora uomo e il passaggio sia stato, per modo di dire, “puntiforme”, e corrispondente all’acquisizione di strutture neurali in grado di dare origine a quella che Aristotele chiamava l’anima intellettiva. Ma, una volta che questa è emersa, ha preso a evolvere indipendentemente dal corpo, incluso il cervello. D’altro canto Francois Jacob, che condivise con Jacques Monod e Andrè Lwoff il Premio Nobel per la medicina del 1965, nel suo libro La logique du Vivant (Gallimard, 1970), sostiene che l’evoluzione della vita è avvenuta per salti, per l’emergenza in alcuni punti cruciali di qualcosa di completamente nuovo, e l’ultima a emergere sarebbe stata proprio quella che ha consentito la umanizzazione.

Cervello, Mente, Anima
Nella domanda è espresso il concetto di “sé cosciente nel tempo”, come risultato dell’acquisizione dell’anima, che trovo difficile commentare. Infatti, si afferma che “l’anima si sarebbe sviluppata come sovrastruttura ideale (una categoria del pensiero) resa possibile da una concreta struttura neurolinguistica, una categoria del pensiero in cui far confluire sostanzialmente l’esperienza del male e l’idea del peccato, ovvero quegli elementi del comportamento propri dell’uomo e che sono contrari alle regole di comportamento codificate dal gruppo”. Ma non credo che si faccia confluire in questa categoria del pensiero soltanto l’esperienza di quello che, per un gruppo di umani, è considerato il male, non in senso metafisico, ma perché contrario a regole di comportamento giudicate utili. Immagino che si intendesse implicitamente che l’anima ha consentito di individuare un discrimine tra bene e male. Bisogna aggiungere che agire bene o male deve essere conseguenza di una scelta libera e non di un riflesso, sia pure condizionato, e questo marca una differenza importante tra l’uomo e gli animali. E questa è certamente un’affermazione molto stimolante, nel senso che spinge a porsi dei problemi sui quali i filosofi hanno già discusso in maniera approfondita. 
È anche apprezzabile che si cerchino nel mondo fisico, indagabile con il metodo scientifico, dei processi che possono condurre a interpretazioni originali di aspetti umani non pertinenti al campo della scienza. Che ci siano delle basi materiali perché emergano sovrastrutture non ascrivibili direttamente al mondo fisico è un tema importante di ricerca. Molti anni fa, l’oncologo Andrè Lwoff  scrisse un libro intitolato Le basi materiali della significazione (Bompiani, 1977) che, per questo argomento, mi sembra particolarmente interessante. Ma questo ha implicazioni filosofiche molto rilevanti sulle quali resto nella incertezza.
La parte finale della domanda, ispirata da Kaufmann, pone un quesito al quale non si può dare una risposta netta. Certamente l’intelligenza ha dato all’uomo un notevole vantaggio selettivo nell’evoluzione biologica, ma se consideriamo l’anima, con tutto ciò che vuol dire anche in termini di immaginazione, sentimenti e autocoscienza, questa mi sembra più importante per la evoluzione del "mondo tre" di Popper che per quella biologica. 

Diventare Umani



domenica 2 dicembre 2018

BIOLOGIA E RAZZA – IMPERFEZIONI DI METODO


Ottant’anni fa (1938) veniva pubblicato il “Manifesto della Razza”, un documento nefasto nel metodo non meno che negli intenti. Il Manifesto si basava su una sedicente dimostrazione scientifica della diversità biologica delle razze umane. Su tale base i regimi autocratici e autoritari della prima metà del secolo scorso affermavano la superiorità di alcune razze su altre. 


Di recente, è stato pubblicato un contro-manifesto, il “Manifesto della Diversità Umana” (vedi testo), dove si sottolinea il fatto che le attuali conoscenze consentono di affermare il contrario, vale a dire che non esistono basi biologiche per affermare l’esistenza di razze in ambito umano. Implicitamente, ciò significa che non esiste un quadro biologico di riferimento sulla cui scorta si possa stabilire l’invocata superiorità di un gruppo umano rispetto ad altri gruppi umani.
Ciò ovviamente non significa che non esistano tratti ereditabili caratteristici di determinate popolazioni. Per lo più, tali tratti corrispondono all’espressione di caratteri di tipo adattativo sviluppatisi a livello locale e accumulatisi (segregati) nelle varie popolazioni quando queste erano relativamente isolate una dall’altra e gli scambi genetici tra loro erano oltremodo rari. La pelle scura degli africani, gli occhi a mandorla degli asiatici, i capelli biondi di alcune popolazioni nordiche ne sono il classico esempio.

The Golden Rule (Norman Rockwell, 1996)
La coesistenza delle varietà umane e delle loro culture
È mia consuetudine non entrare troppo nei dettagli tecnici degli aspetti biologici ed è anche mia consuetudine non appoggiare l’una o l’altra di tesi contrapposte anche se, in questo caso, non ho difficoltà a sostenere l’inadeguatezza dei supporti biologici al concetto di razza in ambito umano. I miei interventi sono prevalentemente di carattere epistemologico: sostanzialmente, le mie critiche sono rivolte più all’aspetto metodologico e semantico di affermazioni di carattere scientifico, in modo particolare se da tali affermazioni si vogliono far discendere massime ideologiche (cosa che di per sé dovrebbe essere estranea alla scienza). È noto infatti che là dove si utilizzano argomenti scientifici per sostenere argomenti ideologici, non sono quasi mai i primi a sostenere i secondi, ma sono quasi sempre quelli ideologici ad interpretare o a distorcere a proprio vantaggio gli argomenti scientifici (l’uso politico la teoria “scientifica” contro la genetica mendeliana sostenuta da Trofim Lysenko, è un esempio lontano ma paradigmatico, e se ne possono trovare molti altri). 

Nella relazione razza ↔ biologia (relazione stretta secondo alcuni, lassa secondo altri), entrambi i termini – “razza” e “biologia” – sono fluidi, evanescenti, dai limiti incerti. Quanto alla biologia, ci si potrebbe per esempio chiedere quanti geni sono indispensabili per definire una differenza razziale: dieci, cento, mille, su un totale approssimativo di ventimila, secondo i dati più aggiornati dello studio sul Genoma Umano?  La risposta è impossibile per diverse ragioni: alcuni caratteri si formano attraverso la collaborazione di numerosi geni mentre, di converso, alcuni geni cooperano alla costituzione di molti caratteri, anche molto diversi tra loro. Alcuni geni hanno effetti enormi, altri sembrano avere effetti quasi insignificanti. Una regola quantitativa, quindi, non può essere data mentre una regola qualitativa non esiste. E che dire del significato di alcuni dati “percentuali” riguardanti il DNA? Tre dati esemplificativi della questione: 1) il DNA degli umani differisce solo per il 4% da quello degli scimpanzé o dei bonobo; 2) il 5-10% del DNA delle popolazioni umane attuali deriva in modo inequivocabile da antiche popolazioni Neanderthal (vedi articolo su Le Scienze 27 novembre 2018); 3) solo il 2% circa del DNA umano circa codifica direttamente proteine, tutto il rimanente sembra avere funzioni strutturali e modulatrici. Tutto ciò per dire che affermazioni come la biologia dimostra che… vanno sempre e in ogni caso prese con le pinze e su queste non è metodologicamente lecito stabilire “verità” e ancor meno “verità ideologiche”.

Il concetto di razza è estraneo alla genetica dell'uomo
L’altro termine della relazione è “razza”.  Va detto, innanzitutto, che questo termine non è scientifico. Le classificazioni biologiche distinguono generi, specie, varietà, non “razze”. Nell’ambito di una specie possono esistere sottospecie e varietà che possiedono “caratteri distintivi, stabili, ed ereditabili”: i caratteri delle cosiddette razze umane sono ereditabili ma non così distintivi e stabili, per via del fatto che i vari gruppi umani cui il termine si applica non sono sufficientemente isolati dagli altri gruppi umani per rendere tali caratteristiche stabili. 
Il termine “razza” designa quindi in modo empirico differenze esteriori comuni e relativamente aleatorie ma non comprende differenze essenziali di tipo cognitivo. Piccole differenze genetiche e le differenze esteriori possono disegnare la storia, l’evoluzione, le emigrazioni dei gruppi umani: non le caratteristiche umane fondamentali.

Nei diversi gruppi umani (che possiamo chiamare popolazioni, popoli, tribù, ecc.) le differenze che contano, e che sono anche  eventuale causa di scontro, sono tutte di tipo culturale e dipendono dalla storia di ciascuna popolazione. Il termine “razza” si configura quindi come una sorta di sintesi in cui si tende a legare (in forma stabile ed ereditaria) qualche carattere esteriore con qualche caratteristica culturale. Ovvio ed evidente che siffatto termine si presta ad ogni genere di deriva ideologica e di deformazione morale: un termine ideale per operare differenziazioni arbitrarie dalle ovvie ricadute sociali, politiche, economiche. Il fatto poi che i diversi popoli, pur non essendo separati da inesistenti barriere biologiche, si sentano diversi gli uni dagli altri per motivi culturali (e che su questa base alcuni di essi vantino una presunta superiorità sugli altri), questa è tutta un’altra questione e richiede una discussione a parte, non di tipo biologico, bensì antropologico.

Ritratto di Terentius Neo assieme alla moglie (Pompei, 20—30 d.C)
Di origine sannitica, i due erano “cittadini romani” (lui indossa la toga romana). La Constitutio Antoniniana  concedeva la cittadinanza romana a tutte le popolazioni abitanti entro i confini dell'Impero




venerdì 23 novembre 2018

DOMANDE E RISPOSTE SU L'EVOLUZIONE - XVII^ parte

In questa puntata di Domande e Risposte su l’Evoluzione, il professor Rugarli risponde a una domanda che riguarda l'improbabile possibilità che cosiddette variabili antropologiche (comportamenti su base essenzialmente culturale), in virtù di un meccanismo di isolamento riproduttivo anch'esso su base culturale, possano alla lunga generare varietà umane distinte e separate.  

Domande e Risposte
# 26

Domanda 26. È del tutto evidente che in ogni società sono presenti varianti antropologiche (individui e gruppi che differiscono per comportamento, etica, regole) benché la tipologia e la prevalenza di queste varianti possa differire da società a società. Queste varianti antropologiche sono tali per motivi culturali, la genetica (la trasmissibilità obbligatoria del carattere) non avendo nulla a che fare con l’appartenenza ad un gruppo piuttosto che a un altro. La rappresentanza di queste varianti nelle società varia nel tempo e in relazione alle condizioni ambientali (economiche, sociali, relazionali, ecc.). Vi è una certa tendenza (non necessaria e tantomeno esclusiva) a far sì che alcune varianti segreghino in gruppi sociali relativamente omogenei, realizzando una sorta di isolamento culturale che potrebbe predisporre a una variante di isolamento riproduttivo se non addirittura di isolamento territoriale. Alcune varianti rappresentano la cosiddetta media. Il loro comportamento è “normale”: sono relativamente tranquilli, relativamente collaboranti, relativamente tolleranti, relativamente educati, relativamente sinceri, relativamente onesti, e così via. Un’altra categoria è quella il cui comportamento è affine all’imperativo categorico kantiano: sono sinceri, onesti, operosi, altruisti, ecc. Altre categorie sono molto meno assoggettate all’imperativo kantiano ed è inutile tentare di descrivere i vari comportamenti relativi alle varianti più “selvatiche”: tra questi c’è comunque la tendenza alla violenza, al sopruso, alla menzogna… In alcuni casi e in alcune situazioni è possibile che si formino gruppi di individui anche molto numerosi (microsocietà all’interno della società) dove alcuni comportamenti sono prevalenti, sia perché costituiscono un vero e proprio elemento di sopravvivenza all’interno del gruppo violento, sia perché la consuetudine ad operare secondo certi schemi diventa un modello, un insieme di regole intorno al quale si realizza un corpus di valori e un’etica che traduce questi valori in atti.


Fringuelli di Darwin


La domanda è se queste varietà antropologiche, questi “tipi umani” facilmente distinguibili gli uni dagli altri e altrettanto facilmente classificabili in categorie (in modo non particolarmente diverso dalla classificazione dei fringuelli di Darwin) rappresentano varietà in grado di generare, in condizioni idonee, una nuova specie. Siamo relativamente certi che questo non possa avvenire perché la cultura non si traduce – lamarckianamente – in fenotipo (mentre non si può escludere che un fenotipo possa trovare una maggiore affinità per una certa cultura). Inoltre, gli aspetti culturali mutano in tempi così rapidi da non consentire la costituzione di gruppi stabilmente caratterizzati da uno specifico modello culturale. Infine, e per i motivi sopra addotti, nessuna varietà culturale può raggiungere una massa critica tale da generare una qualsivoglia possibilità di speciazione. Ciò significa che i caratteri più “raffinati” e quelli più “gretti” non segregano permanentemente in clusters differenziati ma permangono disseminati all’interno della società, rimanendo tutti a disposizione (per un migliore adattamento di questo o quel gruppo, o dell’intera società) qualora le condizioni ambientali possano richiedere l’uno o l’altro carattere per determinare il livello di fitness all’ambiente. Sembra triste che nella società umana contemporanea, che guarda a sé con una certa compiacenza di superiorità, debbano permanere, assieme ai comportamenti più virtuosi, anche quelli più gretti, ma questo è probabilmente confacente ai meccanismi dell’evoluzione darwiniana attraverso la selezione del più adatto.

Buddismo: uno degli otto guardiani del Bene scaccia il Male
Risposta 26. Che nelle società umane siano presenti varietà antropologiche selezionate non in base alla genetica, ma ai modelli culturali è innegabile. Che queste possano segregarsi in gruppi tali da dare origine addirittura a specie diverse mi sembra assurdo. Aggiungo che non penso che queste varietà antropologiche siano differenziate dai livelli di virtù (essere sinceri, onesti, operosi, altruisti, ecc.), quanto in base ai livelli culturali, o meglio dal valore che si attribuisce al sapere, o ancora meglio dall’importanza che si attribuisce all’intelligenza. I virtuosi e i reprobi mi sembrano distribuiti ugualmente in tutti i gruppi della società, quello che differenzia più di ogni altro fattore è, come ho detto, il ruolo che si attribuisce all’intelligenza. Questo significa che una persona istruita non è necessariamente più intelligente di chi è ignorante, ma che ha considerato che valesse la pena faticare e fare dei sacrifici per nutrire la propria intelligenza. 
Naturalmente, il discorso è complicato perché lascia aperto il problema della definizione dell’intelligenza. Etimologicamente, essere intelligenti dovrebbe significare essere in grado di comprendere ciò che non è immediatamente evidente, ma le cose non sono tanto semplici. Ci può essere una capacità di comprendere quasi istintivamente delle situazioni complicate della vita quotidiana mentre questo può sfuggire a persone in grado di dominare concetti astratti. Chi è allora più intelligente?

Intelligenza umana. Pittura rupestre: Font de Gaume (Bordeaux)
Personalmente riserverei la definizione, senza peraltro volere stabilire delle gerarchie, per la capacità di pensiero astratto, per la attitudine alla logica e, aggiungo, per l’immaginazione. Ma è certo che da una persona all’altra ci sono differenze nel tipo di intelligenza e non a caso tutti i test che hanno cercato di misurarla hanno fallito. Perciò, mi sembra più equo differenziare le varietà antropologiche di cui si parla nella domanda, non tanto in base all’intelligenza (che potrebbe generare delle classifiche odiose), quanto all’importanza che si dà al suo esercizio e, conseguentemente, all’acquisizione del sapere. Questo, a differenza dell’intelligenza, è manifestamente differente, dal punto di vista quantitativo, da una persona all’altra.
Ma le complicazioni non si fermano qui. Esistono fattori ambientali che influenzano questa predisposizione. Le disuguaglianze sociali hanno molta importanza e, anche a parità di punti di partenza su base economica, vi sono delle differenze che definirei di eredità culturale. Infatti, chi nasce in una famiglia ove circolano libri e c’è abitudine alla lettura sarà avvantaggiato rispetto a chi non ha questa fortuna. Si aggiunga che bisogna tener conto anche delle motivazioni che spingono alla acquisizione del sapere. C’è chi è motivato dalla autentica passione per la conoscenza, ma anche c’è chi lo fa in vista di conseguimenti economici, perché il sapere può consentire professioni remunerative, anche se in questo caso prevale una propensione per il sapere tecnico e può essere giudicata oziosa, tanto per fare un esempio, la lettura di Proust.  
In conclusione, le differenze possibili sono tali e tante da far dubitare che possano dare origine a varietà antropologiche, anche se chiaramente le persone con le stesse propensioni tendono a frequentarsi tra di loro. Venendo all’epoca attuale, è manifesto che ciò che è più desiderabile dalla maggioranza, ossia il danaro e il potere, è del tutto svincolato dal sapere, anche se sarebbe ingiusto considerarlo svincolato dall’intelligenza, o per lo meno da un certo tipo di intelligenza. Questo è, complessivamente, un bene. Quello che è un male è il disprezzo che monta verso coloro che antepongono il sapere ai beni materiali, incarnati nella categoria generalmente detestata degli intellettuali.
A questo proposito c’è una bella domanda, di tipo evoluzionista, che ci si può porre. Sono allora gli intellettuali sostanzialmente non adatti alla società contemporanea e sono destinati a sparire, come i dinosauri?

Io penso di no perché credo che una connotazione peculiare della specie umana sia la propensione alle attività intellettuali e non penso che modelli culturali che variano nel tempo siano un fattore di selezione più forte di ciò che è inscritto nella natura fondamentale dell’uomo. Perciò gli intellettuali sopravviveranno, perché il contributo che danno all’intelligenza, nei termini in cui prima l’ho definita, va al di là dell’oggetto specifico della loro attività. Occuparsi di filosofia o di letteratura sarà sempre un patrimonio che nutrirà tutti, compresi i grandi scienziati


Raffaello: La Scuola di Atene 


venerdì 9 novembre 2018

CUOCERE UN UOVO SODO, LAICITÀ, E ALTRE QUISQUILIE

La Società Internazionale di Storia Culturale (la disciplina che si propone di analizzare i diversi fenomeni facenti capo alle scienze umane mediante gli strumenti offerti da un approccio culturale alla questione) ha indetto per la prossima estate una conferenza intitolata IL TEMPO È CONOSCENZA – Orologi, Scienza e Società in Europa tra il XVI e il XIX Secolo. Per chi fosse interessato la conferenza si terrà a Tallinn (Estonia) nei giorni 26-29 giugno 2019.



Quanto tempo occorre per cuocere alla perfezione un uovo sodo o per arrostire un pollo? A che velocità cade un oggetto in relazione alla sua massa? Come calcolare la propria posizione nei termini di latitudine e longitudine? Come calcolare gli orari di arrivo e di partenza delle diligenze postali? Come stabilire le coordinate per il primo appuntamento d’amore senza correre il rischio di non incontrarsi? Come stabilire se l’alibi di un sospetto assassino è valido oppure no? Da sempre – e al giorno d’oggi ancor di più – la misurazione del tempo è stato un fondamento di ogni attività umana, dalla più semplice alla più complessa, in attività di pace e in attività guerresche. Oltre a quella del tempo, molte altre misurazioni sono fondamentali per la conoscenza: le distanze, la pressione atmosferica, l’attività elettrica del cuore, e mille altre. Le conoscenze che chiamiamo scientifiche si basano tutte sulla misurazione di qualcosa. Conoscere qualcosa è quantificare quella cosa: quella cosa in sé e quella cosa in relazione ad altre cose.

Cuocere alla perfezione un uovo sodo: risultati sperimentali 
La conoscenza si esaurisce quindi nei numeri che descrivono cose o fenomeni? Sì e no. Più sì che no o più no che sì, a seconda dei punti di vista e a seconda di ciò che si desidera conoscere. Il buon Darwin, quando si trattò di decidere se sposarsi, compilò due paginette di pro e contro, cercando di attribuire un valore agli uni e agli altri. Tra i pro: avere figli (per tramandare la specie); avere una compagna fedele (meglio di un cane); sentire una voce femminile; avere una casa accogliente (e qualcuno che se ne prenda cura). Tra i contro: non potere andare dove si vuole e frequentare chi si vuole; cedere su ogni cosa per non litigare; noiose visite ai parenti; avere meno soldi per comprare i libri; diventare grassi e pigri; possibilità che alla moglie non piaccia Londra e doverci rinunciare; non poter fare gite in mongolfiera; ecc. Tuttavia, pur essendo i “contro” assai prevalenti sui “pro”, egli decise comunque di sposare la sua amata cugina Emma. Quanto a Gregor Mendel, lo scopritore delle leggi della genetica, conservava i suoi quaderni nella cella del monastero di Brno dove viveva ed eseguiva gli esperimenti sulle caratteristiche ereditarie dei piselli: in questi quaderni, decine di migliaia di numeri descrivevano le leggi dell’ereditarietà. Alla sua morte, per rendere la cella immediatamente disponibile per un altro monaco, fu bruciato tutto, con grande soddisfazione del Vescovo di Brno il quale non vedeva per niente di buon occhio quel monaco che si affannava a tradurre in numeri la perfezione del creato e del suo Creatore.

Per noi scienziati (chiedo venia se mi dispongo in questa categoria) la misura è tutto: è l’ossigeno che ci tiene in vita ed è il metro con cui misuriamo anche noi stessi e i risultati che otteniamo. Misuriamo e quantifichiamo, e chiamiamo “veritieri” i nostri risultati e le nostre “dimostrazioni”. Misurando “oggettivamente” (vale a dire in modo laico e neutrale – almeno, così crediamo) ci sentiamo perfettamente laici”, diversi e superiori a chi, per fede, dichiara “veritiero” l’indimostrabile o a chi imputa dei limiti al potere del numero. Ecco che, così facendo, alcuni di noi diventano “laici” per fede (la fede nei numeri) e diventano ancor più fideisti dei fideisti che combattono.

Ci sono saperi, però, che trovano poco conforto nei numeri. Poesia, storia, letteratura, linguistica, archeologia, musica, arte, filosofia, estetica e molti altri saperi utilizzano strumenti non quantitativi, e i risultati degli studi di loro pertinenza assai difficilmente trovano oggettivi riscontri quantitativi. Questi saperi sono forse meno saperi di quelli misurabili? La risposta è no! Sono saperi anch'essi: eccome se lo sono! Ma spesso noi scienziati – e insieme a noi gli Enti finanziatori della Cultura – si aspettano dei numeri e delle misurazioni per stabilirne l'effettivo valore.

L'impact factor è un indice numerico col quale si cerca di definire la rilevanza di un dato scientifico o di un'attività di ricerca 
Per fortuna, ci sono oggi dei movimenti d’opinione, non solo fra gli umanisti ma anche tra gli esponenti delle cosiddette scienze dure, che vorrebbero riconsiderare la questione: sia per trovare una quadra che non sia unicamente quantitativa per stabilire il valore di un oggetto culturale o di una conoscenza, sia per trovare intersezioni e complementarietà tra conoscenze quantitative (misurabili) e qualitative (il cui valore non si esprime necessariamente coi numeri). L’obiettivo è fare delle conoscenze dell’uomo e di quelle sull’uomo, una conoscenza unica.

L’umanità non si misura, afferma Annalisa Sacchi sul numero #362 di La Lettura. Questo è solo l’ultimo di una lunga serie di articoli che La Lettura dedica a una questione aperta e importante come questa. Un aspetto di rilevanza non secondaria sollevato in questo articolo è la differenza tra esperimento ed esperienza: il primo è passibile di misurazione, mentre l'aritmetica si addice poco alla seconda. Nell’esperienza ha maggiore valore l’emozione che si lega ad essa, la rete di connessioni e di evocazioni che essa suscita, la posizione che essa assume all’interno della memoria di chi la prova, la possibilità formale e sostanziale di condividerla con altri facendola diventare un soggetto appartenente alla memoria collettiva: fatto non secondario, questo, poiché conoscenza e cultura, oltre ad essere un fatto individuale, sono e rimangono un fatto sociale che travalica il singolo individuo.

In un altro articolo sullo stesso numero di La Lettura, il fisico e scrittore Paolo Giordano, nell’articolo intitolato Anche la Scienza ha bisogno di una Coscienza, pubblica il proprio discorso fatto all’inaugurazione dell’Anno Accademico della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste. Tra le molte affermazioni meritevoli di meditazione ne estraggo qui due: Chi si trova qui oggi ha il vantaggio di possedere un metodo. Ma è davvero sufficiente, il metodo, per muoversi con scioltezza tra gli innumerevoli quesiti etici e materiali nuovi di zecca che il progresso scientifico ci mette continuamente davanti? Stento a credere che chi, come voi, ha fatto della dimostrazione, dell’esattezza e dell’approfondimento insaziabile i cardini della propria conoscenza, possa accontentarsi tanto facilmente … Negli anni dell’Università, non ho mai incontrato sulla mia strada un solo corso di epistemologia o di storia della fisica. Il bravo scrittore ripensa la letteratura nel suo complesso in ogni sua opera. E il bravo filosofo si comporta similmente, filosofando. Perché dovrebbe essere diverso per il bravo scienziato?”.

Concludendo. La conoscenza non si esaurisce nel numero. Certamente, non si può e non si deve prescindere dalle conoscenze che la scienza, con le sue misurazioni, ci mette a disposizione e pensare di poter trovare altrove tutte le risposte. La conoscenza ha un solo scopo (oltre all’intimo piacere estetico di possederla): prendere decisioni e fare le scelte giuste. I soli numeri, però, non bastano, e nemmeno le “dimostrazioni”. A queste vanno coniugati valori che provengono da altri luoghi e da altri percorsi; occorre fare i conti con pulsioni, paure, affetti, aspirazioni e tutte quelle umane cose che non trovano riscontri nei numeri ma nell’animo, quello strano oggetto incommensurabile (quantitativamente irriducibile a qualsiasi termine empirico di riferimento) che risiede in tutti noi.



venerdì 26 ottobre 2018

DOMANDE E RISPOSTE SU L'EVOLUZIONE - XVI^ parte

In questa puntata di Domande e Risposte su l’Evoluzione, il professor Rugarli risponde a una domanda sulle possibili conseguenze del consumismo globalizzato, con tutti gli annessi e connessi che tale comportamento - in parte imposto e in parte agognato - comporta. 

Domande e Risposte
# 25

Domanda 25. Le varie espressioni del consumo di massa globalizzato in una terra sempre più piccola mettono in evidenza comportamenti basati sull’uniformità e sul conformismo piuttosto che sulle differenze.


Conformismo e consumismo - Andy Warhol, Campbell's soup can

Qui non è in discussione (anche se potrebbe esserlo) il valore intrinseco dell’ideologia che sostiene i comportamenti e i consumi di massa: un’eventuale riduzione delle barriere sociali, un ipotetico affrancamento da obblighi o costrizioni, il teorico raggiungimento di livelli sociali più alti e un aumento incondizionato delle libertà di scelta per un gran numero di persone. E non è nemmeno in discussione l’opinione di quelli che si oppongono al consumismo, intravedendovi aspetti fortemente negativi: un impoverimento delle diversità, la trasformazione dell’uomo da soggetto che opera le scelte a oggetto che viene mercificato, una limitazione delle libertà di scelta sotto la falsa percezione di un loro aumento. La questione è piuttosto quella di capire se i principi che sostengono i consumi massificati (efficienza, prevedibilità, controllo), la conseguente disumanizzazione dell’uomo (che da consumatore diventa esso stesso merce), l’isolamento in piccole nicchie della variabilità e della diversità delle forme e dei comportamenti, non creino una combinazione di fattori tale da provocare il verificarsi di una delle due opposte situazioni: 1) la riduzione della diversità al di sotto della massa critica necessaria al perpetuarsi dell’evoluzione, con rischio di estinzioni di massa;  2) la concentrazione delle diversità in ambiti fisicamente o culturalmente ristretti e isolati all’interno dei quali, se la massa critica della diversità viene preservata, l’evoluzione secondo i principi darwiniani può continuare il suo corso. 

Diversità ed evoluzione
Risposta 25. Mi pare che la domanda sia pertinente a proposito dell’evoluzione culturale che è la sola che è ancora in atto nell’uomo. Certamente è vero che la pubblicità e un certo conformismo dei mezzi di comunicazione di massa quando sono concentrati nelle mani di un solo proprietario (che sia uno stato totalitario o un privato in uno stato democratico non fa molta differenza) alterano la selezione di idee libere e differenti. Questo è un caso nel quale l’evoluzione culturale corre rischi che non si sono mai verificati nell’evoluzione biologica, perché l’ambiente fisico è così vario e diversificato da avere favorito l’evoluzione di un numero straordinario di specie e anche il polimorfismo nell’ambito di una stessa specie. Se la terra avesse presentato un ambiente uniforme dovunque, essa sarebbe oggi occupata da una sola specie, l’unica in grado di riprodursi in quelle condizioni. 
  
Un'unica specie sulla terra?
Dato che nell’evoluzione culturale la riproduzione avviene attraverso la comunicazione interpersonale, uniformare questa comunicazione significa alterare un meccanismo fondamentale dell'evoluzione. Ma confido che questa impresa nefasta, fallita ai regimi totalitari del secolo scorso, non riuscirà a chi cerca di ripeterla con altri mezzi al giorno d’oggi. E credo che questo avverrà perché gli umani hanno una propensione naturale alla diversificazione, anche se non so quanto questo dipenda dal loro innegabile polimorfismo genetico. Basti considerare l’industria della moda nell’abbigliamento, che riesce con la pubblicità a imporre a tutti una specie di uniforme, ma poi deve rapidamente cambiare se vuole mantenere i suoi profitti. Mi auguro che questo avvenga anche per le idee e che il pensiero unico alla fine non prevalga.


Conformismo e pensiero unico