lunedì 18 settembre 2017

IL METODO SCIENTIFICO (prima parte)

Prima della vacanza estiva (vacanza à dell’esser vacui ovvero liberi da occupazioni mentali) mi ero lungamente speso nel tentativo di trovare una definizione di scienza che fosse sufficientemente larga per contenere tutto ciò che, a mio giudizio, la scienza È e sufficientemente restrittiva per lasciar fuori tutto ciò che la scienza NON È

La ricerca di una definizione veramente soddisfacente era stata infruttuosa. Alla fine avevo affermato che, in fondo, si potrebbe arrivare a definire che cos’è la scienza analizzando il metodo che essa usa, individuando proprio nel metodo il possibile discrimine tra ciò che la scienza è e ciò che essa non è. Detto fatto. I post che seguono (tre in tutto) cercano di mettere sotto la lente d’ingrandimento il cosiddetto METODO SCIENTIFICO, dopo di che, forse, si potrà finalmente trovare la strada per una soddisfacente definizione di scienza. In questi post si parlerà dell’intreccio inevitabile tra scopo e metodo, di scienze dure e molli (semidure e semimolli incluse); si parlerà di sperimentazione e di misurazione, di Weltanschauung e di “come se”; di metodo induttivo e deduttivo; di errore, condivisione, falsificazione. Si parlerà di riproducibilità e di riduzionismo, ma anche di caso, di dubbio, di ribellione, e, perché no, di poesia. Insomma, di carne al fuoco ce n’è parecchia ed è ora di mettersi in viaggio.    

Il metodo scientifico: una rappresentazione ipersemplificata 
Che cos’è, dunque, il metodo scientifico?

In principio, uno SCOPO

Per avere un metodo è necessario, prima, avere uno scopo. Intuitivamente, è lo scopo a guidare il metodo: scopi diversi, metodi diversi.
Lo scopo della scienza, qual è?

LO SCOPO
Per la scienza in generale, e per ciascuna disciplina in particolare, lo scopo generico è migliorare la conoscenza, ma gli scopi di ciascuno sono inestricabilmente vincolati alla propria visione del mondo. Nei precedenti post s’è già detto qualcosa sull’argomento. Per esempio, s’è accennato al fatto che ci sono due principali visioni, non inconciliabili ma certamente molto diverse, su quale sia lo scopo della scienza. È presto detto. Da una parte ci sono coloro che ritengono che lo scopo della scienza sia definire in maniera “vera e oggettiva” che cosa c’è là fuori e come funziona. Dall’altra parte, ci sono coloro che ritengono che lo scopo dei primi sia illusorio, irrealizzabile e anche sbagliato. Per costoro, lo scopo della scienza è acquisire informazioni sempre migliorabili sui fenomeni del mondo per poterli prevedere e per poter agire su di essi per rendere più semplice, più sicuro, più lungo, più confortevole il nostro soggiorno nel mondo. Inutile dire che, personalmente, appartengo a questa seconda schiera e che i punti di vista che esprimo dipendono in gran parte da questa appartenenza.
Gli scopi della scienza, dunque, non appartengono alla scienza: non sono costitutivi di essa. Appartengono a chi fa scienza e fanno parte della sua Weltanschauung. In parole povere, sembra che lo scopo della scienza (o il fine che chi fa scienza le attribuisce) dipenda da posizioni teoretiche, filosofiche (e anche empiriche) che precedono il far scienza e di cui lo scienziato che opera sul campo non è sempre del tutto consapevole.
La questione degli scopi potrebbe coinvolgere anche la questione – sempre più attuale – delle differenze (e delle similitudini) tra scienze dure e scienze umane (scienze molli). La questione degli scopi potrebbe addirittura scavare distinguo e solchi profondi tra le diverse scienze molli, le quali sembrano compatte e omogenee quando confrontate all’intero pacchetto delle cosiddette scienze dure, ma si rivelano eterogenee quando si confrontano l’una con l’altra.
Cerchiamo di fare un po’ d’ordine e parliamo di una cosa per volta.

Duro come una pietra, soffice e morbido come una piuma

Scienze DURE e scienze MOLLI

Parliamo prima di scienze dure, quelle che vengono in mente per prime quando si pensa genericamente alla scienza. Riflettendo sulle scienze dure, dobbiamo per prima cosa esaminare se davvero le differenti Weltanschauung, oltre a influenzarne gli scopi, influenzano anche il metodo da utilizzare per far sì che la scienza sia davvero tale. Per fare ciò, è necessario per prima cosa indicare chiaramente a quali scienze si applica l’attributo dure”. Si tratta essenzialmente della fisica e della chimica e, limitatamente ad alcuni aspetti, della biologiaLa misurazione, la sperimentazione, e l’oggettività sono i criteri principi per dire che una scienza è dura. 
Senza contare la vaghezza e la criticabilità del termine “oggettività”, si vede fin da subito che, per lo meno in fisica e in biologia, ci sono grandi aree in cui la sperimentazione non è praticabile. In biologia, per esempio, alcune sperimentazioni sulla vita non sono possibili senza spegnere la vita stessa, mentre in fisica, non sono praticabili sperimentazioni su buchi neri, supernove o particelle quantiche tra loro legate ma che si trovano ai lati opposti dell’universo. La fisica che studia i buchi neri, quindi, se non si possono fare esperimenti sui buchi neri medesimi, cessa di essere scienza? Ciò rende del tutto evidente che anche i criteri che definiscono in modo perentorio che cosa è scienza e che cosa non lo è devono essere presi con una certa elasticità. 

Quanto alle scienze molli, con tale temine si intendono le discipline nelle quali l'analisi qualitativa dei dati è quantomeno pari se non superiore all’analisi quantitativa, ovvero sulle operazioni conseguenti alla loro misurazione. Tutte le discipline umanistiche e le cosiddette scienze sociali appartengono a questa area. Quelli che abbiamo visto essere i criteri principe delle scienze dure (misurazione, sperimentazione, l’oggettività) pur trovando largo impiego anche nelle scienze molli non ne costituiscono il cardine metodologico, affidandosi discipline come la storia, la filosofia, la letteratura, la sociologia e varie altre a criteri d’analisi d’altra natura.
Oltre alle scienze dure e a quelle molli, si deve considerare l’esistenza di una serie di discipline che stanno a metà strada tra le une e le altre e che io chiamerei scienze “semidure”: parlo della medicina (che è la disciplina all’interno della quale mi sono sentito scienziato), dell’astronomia, delle scienze naturali (zoologia, botanica, etc.), ed altre con rilevanti aspetti applicativi come le scienze psicologiche o le scienze economiche (potremmo chiamarle App? oppure semimolli”?), che necessitano di rigore, di metodi e di scopi decisamente scientifici per poter esplicare funzioni che siano coerenti con le proprie aspirazioni.  

Il comune territorio del “come se”

Ma torniamo alla questione da cui siamo partiti: quella dello scopo della scienza e se lo scopo condizioni il metodo. S’è visto che a seconda della visione con cui si guarda al mondo, chi si occupa di scienza può avere due tipi di scopi: uno è la verità oggettiva”, l’altro è una conoscenza utile”.
A prima vista si potrebbe pensare che la “conoscenza utile” stia un gradino più in basso rispetto alla “verità oggettiva”. La “conoscenza utile” si pone sul livello del relativo; la “verità oggettiva” si pone sul livello dell’assoluto. La prima si può accontentare di misurazioni e di previsioni di un livello sufficiente per risultare utili; la seconda richiede misurazioni e previsioni perfette, indiscutibili, assolute. L’esperienza ci insegna che ciò, semplicemente, non è possibile e che anche la “verità oggettiva” deve necessariamente accontentarsi di essere approssimata e migliorabile e non può essere, come vorrebbe, né verità né assoluta. Ma c’è di più, è la stessa identità statutaria della scienza a definirsi falsificabile e perfettibile. Quindi, non desta nessuno scandalo che la “verità oggettiva”, sia solo una mezza verità. Se le cose stanno così, allora, una mezza verità e una conoscenza utile cominciano a giocare su un terreno comune, un terreno di quasi-equiparazione. D’altra parte, chi si accontenta di una conoscenza utile, non si pone limiti riguardo alla qualità della propria conoscenza e vuole tendere alla conoscenza più profonda possibile, che poi è lo stesso livello di conoscenza che può raggiungere chi si pone come obiettivo la verità oggettiva e assoluta. Sul piano delle possibilità, pertanto, le due visioni convergono nel medesimo punto. Chi desidera raggiungere la verità assoluta, considererà il suo attuale livello di conoscenza “come se” fosse un livello assoluto, oltre al quale non s’è potuti andare. Chi desidera raggiungere la più profonda conoscenza utile, si comporta “come se” il suo livello di conoscenza sia, in assoluto, il più elevato possibile, altre al quale non si è ancora andati. Le due visioni, quindi, e i loro rispettivi scopi, si incontrano a livello comportamentale e di consapevolezza nel comune territorio del “come se”, e più in là di così non possono andare.  Nel territorio condiviso del come se”, aspirando entrambi a raggiungere il livello più elevato possibile di conoscenza, entrambi devono usare tutti i metodi disponibili per esplorare, misurare, ipotizzare, sperimentare, e quant’altro sia utile per “conoscere” il conoscibile del mondo, sia che lo si voglia considerare reale sia che lo si voglia considerare realtà apparente o fenomenica.

Il cardinale Roberto Bellarmino
Le due contrapposte Weltanschauung sono inconciliabili così come sono inconciliabili strumentalismo ed essenzialismo, sebbene alcuni filosofi (per esempio Karl Popper) abbiano tentato impossibili mediazioni. Tuttavia, nel territorio del “come se” si può giungere ad un armistizio e valutare se le due visioni implichino, davvero, il ricorso a “metodi scientifici” diversi. È utile fare un esempio di come diverse Weltanschauung che esprimono visioni del tutto diverse sulla cosiddetta realtà e sull’approccio “scientifico” da tenere nei confronti della realtà medesima, in fondo, sul piano metodologico non siano poi così distanti come credono di essere. Prendiamo il più classico dei casi di controversia scientifica e di Weltanschauung contrapposte: il caso del Tribunale dell’Inquisizione e di Galileo. La Chiesa – per “fede” o per “potere” – aveva il “dovere” di affermare, come premessa, che la verità vera e unica, quella con la V maiuscola, è quella rivelata nelle scritture: quella verità non è discutibile, è accessibile attraverso la fede mentre non lo è attraverso il laico e umano ragionare. È lecito, invece, discutere circa il modo con cui gli uomini cercano di comprendere i fenomeni del mondo, come si rapportano con essi, come li prevedono e li manipolano a loro uso e consumo. L’importante è che gli uomini non mettano in discussione la Verità (V). Quanto alla posizione degli astri, alla conoscenza delle loro dinamiche e all’utilizzo umano di tali nozioni, le formule tolemaiche o quelle copernicane, dal punto di vista della Chiesa, sono pure rappresentazioni e applicazioni strumentali che “salvano le apparenze”. Esse sono entrambe di estrema utilità (quelle copernicane forse più semplici e più utili di quelle tolemaiche) ma non “spiegano nulla” della verità del mondo, se non che la rappresentazione tolemaica, per il fatto di essere geocentrica, meglio si accorda con le Scritture. Per la Chiesa, lo scandalo è che Galileo non considera il modello copernicano come una “rappresentazione strumentale” per fare predizioni, ma lo considera una rappresentazione “vera” del mondo. In tale situazione, lo stumentalismo della Chiesa si contrappone all’essenzialismo di Galileo. Così  il cardinale Bellarmino ammoniva Galileo durante il primo processo a suo carico: Galileo agirà prudentemente se parlerà ipoteticamente, ex suppositione: il dire che rendiamo conto delle apparenze, supponendo che la terra si muova e il sole sia in quiete, meglio di quanto possiamo fare usando l'eccentriche e gli epicicli, è parlare propriamente: non c'è pericolo, in questo, e questo è tutto ciò che il matematico ha bisogno.” In verità, Galileo prendeva le debite distanze dall’idea di cercare l’essenza ultima delle cose o di conoscere la realtà che si manifesta nei fenomeni. Dice infatti Galileo: “ Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Sole; né veggo che nell’intender queste sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de’ particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall’uno all’altro”.

Sul METODO SCIENTIFICO (parte I)

È ora di farsi qualche domanda.
Quali sono dunque questi metodi su cui si basa l’agire scientifico? Quali procedure e quali processi mentali implicano? Esiste davvero un metodo scientifico? Definisco la scienza in base al metodo che usa o definisco scientifico un metodo perché è usato da chi fa scienza? (Nell’ultima domanda vedo il serpente tautologico che si mangia la coda).
Un metodo, per essere definito tale, credo debba avere una duplice natura: deve essere uno strumento d’utilizzo pratico e, contemporaneamente, deve essere una (pre)disposizione d’animo. Lo strumento per risolvere i problemi non può essere dissociato dalla disposizione d’animo con cui i problemi si affrontano. Questo vale per qualunque metodo e il metodo scientifico non fa eccezione.

Una delle prime definizioni di metodo scientifico è rintracciabile, oltre 11 secoli fa, nelle parole del medico, filosofo, astronomo islamico Alhazen (Ibn al-Haytham, 965-1040), grande esperto di ottica e di visione, il quale sottolineava l’importanza della sperimentazione pratica, là dove è possibile, nelle indagini sulla natura. Fu poi Francis Bacon, nel Novum Organum (1620), a formalizzare per primo l’idea di metodo scientifico”, noto ancor oggi come metodo baconiano. Egli fu il primo a escludere il sillogismo dalle procedure “scientifiche”, confinandolo alle procedure logico-filosofiche. Il sillogismo come pura tecnica logica può portare a grossolani errori nel caso in cui uno dei termini sia errato. Tuttavia, la pratica del sillogismo (se A = B e se B = C, allora A = C) ha ancora una sua utilità nel ragionare scientifico, in modo particolare quando si pongono ipotesi.
Il metodo baconiano è quello del ragionamento INDUTTIVO: osservare il fenomeno, raccogliere sistematicamente i dati qualitativi e quantitativi inerenti il fenomeno, analizzare ed elaborare i dati riguardanti il fenomeno in modo da trarne (INDURRE) leggi generali che governano e/o descrivono le dinamiche del fenomeno.
Bacon aveva anche molto opportunamente sottolineato la natura COLLETTIVA della scienza: la scienza come luogo in cui gli studiosi apportano il loro materiale, le loro osservazioni, le loro misurazioni, accumulandole e condividendole. Gli empirici", affermava, “sono come formiche: accumulano e usano. I razionalisti tessono tele come i ragni. Ma il metodo migliore è quello delle api perché si comportano un po’ come i primi e un po’ come i secondi: traggono il materiale esistente e lo utilizzano”.

Rispetto alla logica filosofica che si basava ampiamente sull’autorità degli antichi maestri, il metodo baconiano è stato rivoluzionario e fa parte tutt’ora del bagaglio metodologico dello scienziato: osservare il fenomeno e le sue varianti, ipotizzare leggi generali, sperimentare. Per sperimentazione bisogna intendere la ripetizione governata del fenomeno introducendo anche variabili che perturbano il fenomeno medesimo, per capire se le leggi generali ipotizzate si confermano oppure no. L’esperimento deve essere disegnato proprio per mettere alla prova dei fatti le leggi ipotizzate. C’è un rigore intrinseco, quasi meccanico, nel metodo induttivo baconiano.
Tale metodo è considerato da taluni il metodo principe per chi fa scienza, forse l’unico meritevole di essere chiamato “scientifico”. Il metodo induttivo ha uno scopo preciso: partendo dalle osservazioni di specifici fenomeni, determinare delle Leggi generali che spieghino come funziona il mondo e che consentano di predire particolari fenomeni. Al giorno d’oggi, anche se aggiornato in alcuni dettagli, il metodo induttivo segue pari pari la logica baconiana:
Osservazione del fenomeno à ripetizione del fenomeno à misurazioni riguardanti il fenomeno à esperimenti sul fenomeno (perturbazione delle condizioni in cui si verifica il fenomeno) e misurazioni correlate à verifica delle misurazioni e confronti tra misurazioni à definizione di un modello fisico generale riguardante il fenomeno à formulazione di ipotesi contestualizzando il fenomeno nel modello prefigurato à definizione di un modello fisico-matematico per analizzare il fenomeno e le sue varianti sperimentali à disegnare esperimenti che forniscano informazioni su specifiche caratteristiche del fenomeno à mettere in atto gli esperimenti ed effettuare le misurazioni pertinenti à confrontare gli esiti dell’esperimento e le misurazioni pertinenti à formulare una teoria generale à disegnare ulteriori esperimenti di verifica à in base ai risultati … accettare o rigettare le ipotesi particolari e le teorie generali.

Un esempio di metodo induttivo è quello con cui si può determinare una “legge” riguardante la forza gravitazionale. Si osserva il fenomeno di una mela che cade da un albero. Si ripete più volte l’osservazione del fenomeno per verificarne la ripetibilità, ovvero la non occasionalità. Si sottopone il fenomeno a varianti per valutarne l’universalità (ottenendo, per esempio, risultati analoghi usando mele, pere, sassi, e oggetti di varia natura). Si effettuano misurazioni. Si notano differenze tra la velocità di caduta dei sassi, delle mele, delle piume. Si formulano ipotesi e si definiscono modelli fisici che tengano conto delle varianti. Si disegnano esperimenti che aboliscano l’effetto di certe varianti (per esempio, si fanno cadere gli oggetti all’interno di un tubo nel quale sia stato creato il vuoto per eliminare l’effetto dell’aria); si effettuano gli esperimenti e si fanno misurazioni. Si confrontano le misurazioni. Si ipotizza una teoria generale per la caduta dei gravi e si definisce matematicamente l’accelerazione con cui i gravi precipitano a terra. Si disegnano altri esperimenti di verifica o di confutazione: per esempio si fanno cadere altri tipi di oggetti, oppure si effettuano esperimenti a quote diverse (a livello del mare e in cima a qualche alta montagna, nelle regioni polari e all’equatore). Si confrontano le misurazioni. In base ai risultati, si dichiara verificata o confutata la teoria generale sui gravi.

Traendo risposte generali da fenomeni particolari, il metodo induttivo presuppone che i singoli fenomeni particolari siano rappresentativi della universalità di quel determinato tipo di fenomeno. Se avessimo osservato sempre e solo i pesci rossi di un aquario, potremmo indurre che tutti i pesci sono rossi. Ciò non è universalmente vero, mentre lo è all’interno di quello specifico acquario. Il metodo induttivo, quindi, ha determinanti limiti per quanto riguarda la generalizzazione delle conclusioni cui può pervenire. A proposito di questi limiti, un simpatico paradosso è quello del tacchino induttivista, posto dal filosofo e matematico inglese Bertrand Russell: il contadino americano nutre il suo tacchino con regolarità tutti i giorni fin da quando il tacchino è uscito dall’uovo. Il tacchino, quindi, è autorizzato a pensare – induttivamente – che anche domani verrà regolarmente nutrito. Purtroppo per lui, “domani” è il Giorno del Ringraziamento: il tacchino non solo non sarà nutrito, ma finirà con l’essere lui stesso il nutrimento del contadino. Il ragionamento induttivo del tacchino ha fornito predizioni fenomeniche sbagliate. 

Il tacchino induttivista
Come si vede, il metodo induttivo – il metodo principe dell’agire scientifico – ha anch’esso i suoi limiti. Col prossimo post passeremo sotto la lente d’ingrandimento altri aspetti del metodo scientifico. 


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