venerdì 12 maggio 2017

MA LA SCIENZA, CHE COS’È? – DEFINIZIONI – (parte 2 di 5)

Nella prima parte di questa riflessione avevo tratto da Internet quattro proposizioni nelle quali si cerca di definire che cosa sia la scienza. Prima di ragionare su queste definizioni, mi permetterei di aggiungere una breve notazione: darsi una definizione precisa di che cosa sia la scienza è un problema più dei filosofi e dei metodologi che non di chi, quotidianamente, fa scienza o se ne occupa per mestiere.


C’è una specie di relazione inversa tra fare scienza e ricercarne una definizione esplicita. I filosofi e i metodologi hanno un bisogno vitale di definizioni. Per poter discutere di scienza a livello teorico, essi devono poterla mettere a fuoco sotto la loro lente d'ingrandimento. Per fare ciò serve una definizione che stabilisca in modo preciso qual è la sua natura, quali sono i limiti e qual'è il contesto in cui essa opera. Di contro, si può fare scienza ai livelli più elevati senza saper definire che cosa sia, esattamente, questa benedetta scienza e senza essere particolarmente interessati alla questione. Inoltre, alla gente comune (principale beneficiario del progresso tecnologico e scientifico), non interessa un fico secco chiedersi che cosa sia la scienza: lo sa già. È quella cosa che fanno gli scienziati: le scoperte, la tecnologia, i neutrini. Quella roba lì. 

È come Darwin col problema delle specie.


Nella prima edizione de l’Origine delle Specie (1859), la parola “specie” compare 1558 volte e nell’ultima edizione (1872) essa compare ben 1930 volte. Tuttavia, pur avendola citata così tante volte, egli non ha definito che cosa intendesse per specie e nemmeno come questa si differenzi dalla semplice varietà. C’è di più, egli non volle definire la specie perché – come scrisse all’amico Joseph Hooker alla vigilia di Natale del 1856 – è come cercare di definire l’indefinibile”. Questo comportamento di Darwin dovrebbe insegnarci qualcosa a proposito della necessità o meno di trovare, sempre e comunque, una definizione precisa: in fondo, "de-finire" significa porre dei confini, dei limiti che, a seconda dei casi, possono risultare troppo stretti o troppo larghi per "circoscrivere" adeguatamente ciò che si vuole definire.

C’è un'ulteriore cosa da dire a questo proposito. Gli anziani, molto più dei giovani, si affannano a cercare di definire le cose, immaginando con ciò di riuscire a capirle meglio. L’avanzare dell’età porta con sé una certa lentezza ed è allora che – tornando con la memoria alla vita trascorsa – l’anziano si fa domande più impegnative. Sono domande che uno si pone per cercare di dare un senso retroattivo alle cose che ha fatto. Forse è per questo che, hic et nunc, sto ragionando su queste cose. Forse è per questo che l’astrofisico Stephen Hawking ha dichiarato a 73 anni (nel 2015) che la scienza procede per teoremi. Dimostrabili. Anche da una sedia a rotelle" e che Albert Einstein, a 62 anni affermava: Non dovrebbe essere difficile accordarsi su ciò che intendiamo per scienza. La scienza è lo sforzo secolare di accorpare in un insieme il più completo possibile i fenomeni percepibili di questo mondo per mezzo del pensiero sistematico” (Scienza e Religione, 1941) .
Ma non divaghiamo troppo e torniamo alle definizioni di scienza.


La prima, quella tratta da Wikipedia, recitava:

Soffermiamoci per prima cosa sulla dizione “sistema di conoscenze” perché la cosa è problematica fin da subito. Definire la scienza come “sistema” mi sembra corretto. In un sistema ci va dentro tutto (elementi, strumenti, interconnesioni, apparati, metodi, procedure, verifiche, sistemi logici, ecc.) purché il tutto sia interconnesso e coerente con gli obiettivi del sistema medesimo. La parola sistema è sufficientemente elastica e aperta per comprendere apparati, strumenti logici e metodologie che possano essere applicati sia alle cosiddette scienze dure (le scienze esatte basate su dati quantitativi, misurabili, verificabili), sia alle cosiddette scienze molli (le scienze umane, storiche, sociali ecc., poco assoggettabili al metodo sperimentale). Se il termine “sistema”  non pone problemi, assai più problematico è il termine “conoscenze” che viene qui abbinato al termine sistema. Che cosa si intende per conoscenze? Che cosa vuol dire conoscere?
Conoscere: latino, gnoscere-cum, vale a dire apprendere con l’intelletto l’esistenza, la ragion d’essere, il vero delle cose (vedi al LINK del Dizionario Etimologico online). Qui corre l'obbligo di una breve incursione nella filosofia classica. Nella Dissertazione del 1770,  Immanuel Kant afferma che le cose in sé (le cose per quel che sono realmente) non sono direttamente accessibili: esse possono essere conosciute esclusivamente attraverso la rappresentazione che ne fanno i nostri sensi. Conoscere una cosa, oltre all'esistenza, "ovvia", della cosa da conoscere e del soggetto conoscente,  presuppone l'esistenza di un doppio della cosa da conoscere, rappresentato nell’intelletto del soggetto conoscente. Qui la questione si fa complicata, anche perché ci sono alcuni scienziati (operatori di scienze dure) che, rievocando temi dal sapore idealistico, affermano che là fuori nulla è come pensiamo che sia, anzi, tutto ciò che ci sembra di vedere là fuori è frutto delle nostre operazioni mentali. Questo tema è trattato, per esempio, in Oltre il Biocentrismo di Robert Lanza e Bob Berman (vedi al LINK). Per accettare la parola conoscere così come la si intende comunemente dobbiamo dunque rinunciare a una serie di riflessioni che rischierebbero di mettere in dubbio tutto ciò che crediamo di conoscere a proposito della conoscenza. Un vero pasticcio. 
La soluzione è non andare troppo per il sottile e accontentarci di un sano strumentalismo cosa che faccio più che volentieri per uscire da un’impasse che altrimenti mi bloccherebbe. Mi atterrò quindi alla dottrina del fisico Ernst Mach che in La Meccanica nel suo sviluppo storico-critico (1883) affermava che dobbiamo pragmaticamente limitarci a usare le nozioni della scienza come meri strumenti per migliorare la qualità delle nostre previsioni: queste ci serviranno per intervenire efficacemente sul mondo, senza con ciò credere che le nozioni utilizzate corrispondano a una veritiera rappresentazione della realtà fisica del mondo. Il filosofo John Dewey darà al concetto di strumentalismo un abito tutto filosofico che qui, però, non ci interessa per niente.

Proseguendo nella lettura della definizione data da Wikipedia, incappiamo nella dizione “ricerca prevalentemente organizzata”. La parola “ricerca”, intesa come “studio approfondito e sistematico” mi sembra del tutto adeguata al concetto di scienza che qui si vuole definire. Anche la parola “organizzata” è chiara e pertinente, se per organizzata si intende logica, razionale, sistematica, rigorosa e consapevole dei limiti, degli strumenti e degli usi della scienza. Il problema sorge invece con l’avverbio “prevalentemente”. Prevalentemente significa cose come “solitamente”, “più che altro”, “per lo più”. Vuol dire che altre volte la scienza si sostiene su una ricerca “poco o per nulla organizzata”? L’unica logica che potrebbe giustificare questo “prevalentemente” è quella che potrebbe fare riferimento alle scoperte casuali, al lampo di genio, o a quella creatività individuale cui fa cenno Michael Polanyi ne La conoscenza personale (1958, trad. italiana Rusconi, 1990). Tra l’altro, se questa è l’accezione con cui viene usato il termine “prevalentemente”, non si tiene in conto che, in ciò che si chiama scienza, qualunque scoperta casuale o qualunque colpo di genio improvviso, deve poi passare al vaglio di una inesorabile serie “sistematica e organizzata” di controlli e di verifiche. Ma non basta. Bisogna essere consapevoli del fatto che la "scoperta casuale" o "l'improvviso colpo di genio", non sono quasi mai né casuali né improvvisi.  Per far emergere, improvvisamente, la scoperta casuale o il colpo di genio, sono del tutto indispensabili un occhio esercitato dall'osservazione "rigorosa e sistematica" e un'attitudine mentale alla comparazione "rigorosa e sistematica" dei fenomeni osservati. Pertanto, la scelta di utilizzare l'avverbio "prevalentemente" è alquanto discutibile.
Andando oltre nella definizione data da Wikipedia si incontra la dizione “con procedimenti metodici e rigorosi”. Di regola, un metodo – qualsivoglia metodo – è un procedimento il quale, se non è rigoroso, sarà ben difficile poterlo chiamare metodo. Pertanto, la dizione “procedimenti metodici e rigorosi”, dal punto di vista formale, è pleonastica e ridondante. Dal punto di vista sostanziale, si fa qui riferimento, ovviamente, al cosiddetto “metodo scientifico”. Questo, come la scienza, sfugge a chiare definizioni. Del “metodo scientifico” mi occuperò prossimamente, quindi la critica sostanziale al riferimento metodologico sarà rimandata alle prossime puntate.
Resta ancora da analizzare la parte più impegnativa della definizione di Wikipedia: “… allo scopo di giungere ad una descrizione, verosimile, oggettiva e con carattere predittivo, della realtà e delle leggi che regolano l'occorrenza dei fenomeni”.

L’idea di scienza che Wikipedia intende evocare è decisamente più “pragmatica e strumentalistica” che non “realista”. Tale propensione si esprime linguisticamente con le parole “scopo” e “descrizione” e con la locuzione “occorrenza dei fenomeni”. Innanzi tutto la scienza ha uno “scopo” e questo scopo è evidentemente pratico. Non si tratta quindi, per la scienza, di conoscere la “verità” su come è fatta la “realtà”, ma di costruire modelli e rappresentazioni di quella realtà che si manifesta attraverso i fenomeni. Quello che comunemente si intende per “conoscenza scientifica” e che prelude alla costruzione di modelli, alla definizione di leggi e alla formulazione di previsioni, non viene qui indicata con la parola “conoscenza” ma con la parola “descrizione”. Per certi aspetti, “conoscenza” e “descrizione” si equivalgono: entrambe ci forniscono mezzi adeguati per costruire nella nostra mente rappresentazioni dei fenomeni che osserviamo. A loro volta, queste rappresentazioni ci servono per intervenire pragmaticamente sul mondo. Ma mentre la parola “conoscenza” potrebbe evocare l’idea di una incorporazione di dati veritieri ottenuti attraverso un accesso diretto alla realtà, la parola “descrizione” evoca l’idea molto più soft di una acquisizione narrativa dei fenomeni e del loro manifestarsi. Certamente, c’è qui un discrimine importante tra chi vede la scienza come un processo che tende alla verità e chi, invece, ci vede un processo di natura utilitaristica. È un discrimine per certi versi pericoloso perché sul lato della pura “descrizione narrativa” si collocano molte delle “conoscenze” non scientifiche: le rivelazioni, le magie, gli approcci metafisici, le favole, le superstizioni. Queste conoscenze non scientifiche si basano anch’esse sul ragionamento, sulla logica, sui nessi causali, sul sillogismo, sulla deduzione, sul metodo induttivo: procedure, queste, che appartengono anche alla scienza. La scienza si distingue dagli approcci descrittivi non scientifici perché la sua “descrizione” include anche altre caratteristiche essenziali: la misurazione, la sperimentazione, la ripetibilità, e una significativa predittività.
La “descrizione scientifica” asseconda le procedure cognitive con cui opera il nostro cervello: osservare, confrontare, ricercare nei fenomeni elementi costanti, soppesare e testare gli elementi misurabili dei fenomeni, formulare giudizi e predizioni che siano validati dal processo di acquisizione e valutazione dei dati. 

Una sorta di storytelling  in cui le varie osservazioni che riguardano i fenomeni si stratificano in costruzioni e modelli. In questo contesto, la locuzione “occorrenza dei fenomeni” si pone in modo perfettamente adeguato, inserendo i fenomeni e le risultanze delle verifiche, delle misurazioni e degli esperimenti, nel palinsesto del racconto. Lo scopo di questa narrazione non è la conoscenza della realtà in sé, ma è quello di fornire a noi osservatori e fruitori un quadro il più possibile accurato di ciò che ci circonda per poter poi agire su quel quadro a nostro beneficio. Quando si dice “accurato” si intende “che tenga conto del maggior numero di variabili possibili”, “che corrisponda il più possibile a ciò che si osserva”, “che consenta alle predizioni di essere sempre più corrispondenti ai fenomeni che si effettivamente si produrranno”. Non a caso, in questa definizione si usa la parola “verosimile”: qualcosa che assomigli al vero, proprio perché il “vero” non è accessibile.
Nel definizione di Wikipedia, un termine che sembra un po’ fuori posto è “oggettiva”. Io avrei preferito il termine “condivisa”. Comunemente, quando si dice “oggettivo” ci si riferisce a qualcosa che sta al di fuori del giudizio soggettivo, che ha sussistenza autonoma, e che deve essere universalmente riconosciuto per quel che è, indipendentemente dalla interpretazione soggettiva. Nel contesto di questa definizione, il termine “oggettivo” non ha una connotazione strettamente “realistica”: infatti, riferendosi al termine “descrizione”, esso va inteso nel senso di “condiviso dalla maggior parte degli osservatori”. Spesso, il livello di condivisione è così elevato che detta condivisione ambisce a essere chiamata universale. Tuttavia, tale "universalità" non dipende dal fatto che tutti riconoscono l’oggetto là fuori come autonomo e indipendente dal giudizio soggettivo. Dipende invece dal fatto che gli osservatori umani (che esprimono i giudizi soggettivi) sono tutti dotati degli stessi strumenti di percezione per osservare il mondo e sono altresì tutti dotati dei medesimi strumenti cognitivi per analizzare e per interpretare le loro percezioni del mondo. È l'uguaglianza della dotazione cognitiva che consente ai giudizi soggettivi di essere ampiamente condivisi, sempre che la narrazione scientifica che viene proposta sia convincente e verosimile.
Infine, un’ultima notazione. In questa definizione pragmatica e rassicurante, le parole “realtà” e “leggi” non sono usate in senso “realistico”. La parola “realtà", essendo riferita ai fenomeni e alla loro occorrenza, va letta come “realtà fenomenica”, “ciò che appare ai nostri sensi”, “ciò con cui ci interfacciamo”. La parola “leggi”, non si riferisce a regole inerenti la realtà in sé, ma si riferisce a tutte le regolarità misurabili scaturite dalle osservazioni dei fenomeni in condizioni naturali e sperimentali.
In conclusione. La definizione di Wikipedia, pur nella sua elementare struttura, ci ha dato parecchio da pensare. E questo è un bene. Pur con qualche difetto, questa definizione mi pare apprezzabile perché rimanda un’immagine della scienza come impresa che ambisce a descrivere il mondo e a intervenire utilitaristicamente su esso senza scivolare nello scientismo e in un realismo fuori luogo.


Un’ultima doverosa notazione. Detto tutto ciò, non si può negare alla scienza (essenzialmente alle scienze dure) l’ambizione di spingersi sempre più in là: di far tendere, idealmente, il verosimile al vero, la narrazione alla realtà. I fisici, in particolar modo, sembrano spinti da tale vocazione e sono proprio loro a farci capire quanto sia chimerica questa benedetta realtà. Tanto più si impara su essa, tanto più si capisce che ciò che appare reale non è così reale come sembra (Carlo Rovelli: La realtà non è come ci appare. Raffaello Cortina 2014). L’importante è che nel desiderio di oltrepassare i limiti non ci si dimentichi che i limiti si spostano ma non scompaiono. Discutere delle definizioni di scienza serve anche a mantenere la percezione dell’esistenza di detti limiti.     

martedì 9 maggio 2017

NEUROTECH E I DIRITTI SULLA MENTE

Intervistato da The Guardian, Marcello Ienca - ricercatore italiano trasferitosi stabilmente all'estero e ora in forza all'Istituto di Bioetica Medica dell'Università di Basilea - afferma: "E' sempre troppo presto per valutare l'impatto di una nuova tecnologia fino a quando, improvvisamente, ci si accorge che è troppo tardi". In altre parole, meglio prevenire che combattere. 

Ma, a quale proposito Marcello Ienca ha dichiarato ciò? La faccenda nasce dal fatto che la tecnologia dell'interfaccia macchina-cervello consente applicazioni tali per cui, per esempio, si può giocare ad alcuni videogiochi usando il pensiero in luogo del MouseStick. Ma non si tratta solo di videogame: pare sia stato messo in commercio negli Stati Uniti un cosiddetto stimolatore transcranico idoneo a potenziare, mediante la tecnologia della realtà aumentata, specifiche abilità esecutive o cognitive  (Vedi al link). La ricerca sui dispositivi non invasivi di interfaccia tra cervello umano e intelligenza artificiale viene svolta dai grandi provider di informatica, da agenzie militari, da persone interessate alle applicazioni di mercato di tali tecnologie. 

da: http://www.blush.me/unwind/everything-know-elon-musks-neuralink-far/

Elon Musk, per esempio, non è un imprenditore qualunque. Ha fondato Tesla Motors; è stato cofondatore di PayPal; è presidente di SolarCity, fornitore di energia solare negli Stati Uniti. La rivista americana Forbes lo colloca al ventunesimo posto nella classifica degli umani più influenti almondo. Ebbene, Elon Musk ha lanciato una nuova compagnia chiamata Neuralink  che ha esattamente lo scopo di costruire dispositivi per l'interfaccia cervello-computer in modo che gli umani possano comunicare con le macchine attraverso il pensiero (cosa che consentirebbe anche, temo, alle macchine di impartire ordini telepatici al cervello umano). In questo preciso momento, Neuralink sta assumento molti ricercatori da dedicare al''impresa (Vedi al Link). Se è così (e certamente lo è) c'è da essere alquanto allarmati. Meglio prevenire, afferma Marcello Ienca. Come non essere d'accordo? Che fare, quindi, per non venire colti di sorpresa? "Una cosa che si può fare" afferma Ienca, "è chiedersi se l'attuale quadro delle norme che regolano i diritti umani sia equipaggiato per confrontarsi con le nascenti possibilità delle neurotecnologie o se dobbiamo mettere a punto nuovi strumenti per proteggere i nostri pensieri e le informazioni presenti nel nostro cervello". Attenzione, qui non si tratta solo di difendere la proprietà intellettuale o la privacy dei nostri pensieri ma anche di proteggerci dal fatto che pensieri o comandi provenienti da una macchina vengano mandati nel nostro cervello e ci rimangano come se fossero pensieri nostri. Già oggi i nostri cervelli sono piuttosto permeabili a intrusioni e manipolazioni di vario tipo, ma ciò che ci si prospetta grazie ai progressi neurotecnologici (oggi in teoria, domani in pratica) è piuttosto inquietante. E' per questo motivo che Ienca e Roberto Andorno, docente di giurisprudenza all'Università di Zurigo, hanno pensato se non fosse il caso di normare nuovi "diritti" a difesa dei pensieri e dei cervelli di ciascuno.
Si tratterebbe di quattro nuovi diritti (Vedi al link).


1. Diritto alla Libertà Cognitiva
Questo sancirebbe il diritto all'utilizzo dei dispositivi neurotecnologici allo scopo di modificare (in senso migliorativo, si suppone) le proprie capacità mentali, ma verrebbe sancito anche il diritto al rifiuto di modificare le proprie performance o le proprie capacità mentali qualora questo fosse richiesto o imposto da terzi (per esempio, datori di lavoro).

2. Diritto alla Privacy Mentale
Questo dovrebbe proteggere l'individuo che usa dispositivi neurotecnologici dall'accesso da parte di terzi ai dati residenti nella propria mente o frutto della propria attività mentale. La natura di questi dati è difficile da definire. Altrettanto difficile da definire è se possa essere lecito o meno avere un accesso a idee o piani criminali/terroristici, senza il consenso individuale (questa possibilità sembra essere recisamente esclusa nello stato di diritto occidentale ed è stata bene esplorata nella letteratura fantastica, per esempio nel film Minority Report in cui è all'opera un sistema di prevenzione chiamato Precrime).

3. Diritto alla Integrità (o Inviolabilità) Mentale
Questo diritto intende difendere l'integrità della mente da interferenze esterne (manipolazione dei pensieri, aggiunta o sottrazione di ricordi) attraverso l'uso di dispositivi neurotecnologici (anche a questo proposito il cinema è maestro: vedi, per esempio, la costituzione della memoria e delle esperienze individuali descritte in Blade Runner).

4. Diritto alla Continuità Psicologica
Simile al precedente, questo diritto dovrebbe difendere l'individuo da modificazioni della psicologia, dei comportamenti, dell'identità, indotte dall'esterno e senza il consenso.

Da una parte, tutto ciò appare fantasioso e fantascientifico. Per alcuni aspetti, invece, sembra di parlare di cose molto antiche: basti pensare alle innumerevoli tecniche di manipolazione, propaganda e persuasione più o meno occulta cui tutti noi siamo assoggettati in maniera variamente consapevole o inconsapevole. Le nuove neurotecnologie non sono altro che l'edizione aggiornata di vecchi umani desideri. Se è così, allora, non c'è bisogno di nuovi diritti neurotech-oriented. Sono gli stessi proponenti, Ienca e Andorno, a frenare pragmaticamente sulla loro stessa proposta chiamandola "ipotesi di lavoro" o "provocazione". L'inflazione di "diritti" non avvantaggia necessariamente la società e nemmeno il fatto di far diventare un "diritto fondamentale dell'umanità" ogni aspetto moralmente desiderabile. Resta comunque il monito a non sottovalutare i rischi di una tecnologia in rapida evoluzione e a essere pronti ad aggiustare le norme esistenti adattandole, se e quando è il caso, a rischiose novità emergenti.