martedì 26 dicembre 2017

LA DOPPIA ELICA E L’ULTIMA OMISSIONE DI WATSON E CRICK

Un attento lettore critico dei post che vado scrivendo mi ha rampognato per non avere ancora ricordato una delle più gravi omissioni da parte di Watson e Crick sui fondamentali contributi di idee da loro utilizzati per scoprire la struttura a doppia elica del DNA, scoperta che fruttò loro, nel 1962, il premio Nobel per la Medicina. Questo post rievoca il contributo di Erwin Chargaff alla scoperta.


Erwin Chargaff
Ghargaff è stato un personaggio di prima grandezza nel mondo della chimica e della biochimica. Il suo contributo alla scoperta della struttura del DNA è stato essenziale ma Watson e Crick – c’era da aspettarselo – non ne hanno mai fatto menzione. Dal canto suo, Chargaff è stato un tipo estremamente critico nei confronti della scienza contemporanea, e per questo poco amato dalla comunità scientifica (al suo spirito critico e ai suoi modi detestabili dedicherò in futuro una paginetta ad hoc).

In precedenti post, ho ricordato due scienziati alle cui scoperte e alle cui esperienze i due vincitori del Nobel hanno attinto, senza ricordarsi, però, di ringraziarli per il loro essenziale contributo alla scoperta di quella che è diventata la più famosa icona delle scienze moderne: la doppia elica del DNA.        
DNA: rappresentazione iconografica
Questi due scienziati sono Rosalind Franklin (vedi al link) e James Michael Creeth (vedi al link). E veniamo dunque all’ultima delle smemoratezze dei due vincitori di Nobel, quella che riguarda Erwin Chargaff.

Chi fu costui e quale fu il suo contributo alla scoperta che ha portato Watson e Crick sul palcoscenico mondiale?
Chargaff nacque nel 1905 a Czernowitz, una cittadina che oggi appartiene all’Ucraina – al confine tra Ucraina, Romania, Moldavia – e che all’epoca apparteneva all’Impero asburgico. Si trattava di un impero nel suo momento di massima decadenza, dilaniato da tensioni indipendentiste: un impero che imploderà di lì a poco, con la prima guerra mondiale. Di cultura borghese, crebbe culturalmente a Vienna e la sua formazione fu eminentemente umanistica: frequentava letterati, commediografi, filosofi. Intellettuale di largo respiro, fu letterato egli stesso e tale si considerò sempre, anche quando professionalmente frequentava la chimica. Si diede alla chimica non per vocazione ma perché nel dopoguerra con la letteratura era difficile guadagnarsi il pane. Una volta intrapresa la via della chimica, amò la ricerca: una ricerca romantica, fonte di domande sulla natura del mondo, sulla natura dell’uomo e della scienza medesima. Quanto alle risposte, a quelle di natura materialistica ne abbinava altre di natura umanistica e morale, dando alla sua ricerca un’ampiezza che andava ben oltre il mero razionalismo scientifico. Ma restiamo nell’ambito della chimica.     
Nei primi anni cinquanta c’era un grande fermento nell’ambito della biologia perché era stato chiarito che l’ereditarietà era strettamente correlata all’acido nucleico, una molecola di grandi dimensioni che stava nel nucleo delle cellule. Era stato il medico canadese Oswald Theodore Avery, nel 1943, a scoprire, con un elegante esperimento, la connessione tra acido nucleico (DNA) ed ereditarietà. Lavorando con ceppi batterici della famiglia dello streptococco, egli aveva visto che ceppi non letali lo diventavano se messi a contatto con il lisato di ceppi letali (il lisato è quanto rimane dopo avere ucciso i batteri disciogliendoli con solventi che ne distruggono la membrana cellulare). Aggiungendo al lisato un enzima in grado di spezzare il DNA in piccoli frammenti, la caratteristica aggressività dei ceppi letali non era più trasmissibile ai ceppi non letali. L’esperimento dimostrava che le caratteristiche trasmissibili ai discendenti sono veicolate dal DNA. Dopo questo esperimento, in tutto il mondo si scatenò la ricerca per caratterizzare chimicamente e strutturalmente la molecola in questione. Da bravo chimico, anche Chargaff si impegnò in questa appassionante ricerca. Esaminando le sostanze azotate del DNA – le purine Adenina (A) e Guanina (G), e le pirimidine Citosina (C) e Timina (T) – egli fece una scoperta che era insieme inattesa e di estremo interesse. Scoprì che il rapporto tra la purina C e la pirimidina G era uguale a 1; e il rapporto tra la purina A e la pirimidina T era anch’esso uguale a uno. Questo poteva significare una sola cosa: che nella molecola del DNA ad ogni purina corrispondeva una pirimidina: più precisamente, ad ogni Citosina si legava una Guanina e a ogni Adenina si legava una Timidina. Questo stretto e specifico rapporto tra purine e pirimidine fu chiamato Regola di Chargaff. Una regola è una legge da cui non si scappa.

Regola di Chargaff
EMBÈ?? – si chiederà taluno. Ebbene, un legame paritetico 1:1 può voler dir niente, ma può voler dire molto. Nel caso del DNA, voleva dire molto. Quel fatidico rapporto di 1:1 forniva indizi preziosi riguardo alla domanda che tutti in quel momento si ponevano: come è fatto il DNA, che struttura ha? Chargaff aveva gettato luce su entrambe le questioni. Per capire meglio le conseguenze della sua scoperta riguardo la struttura della molecola, la cosa migliore è leggere direttamente le sue parole sulla questione. In un’opera autobiografica (Il Fuoco di Eraclito. Garzanti, 1985), Chargaff scrive: Quando discussi per la prima volta in pubblico le nostre primissime osservazioni [1947], il DNA apparve come un nastro di Möbius. In qualche modo mi spiace ancora che questa concezione sia rimasta soltanto una concezione campata in aria […] Questo è probabilmente il primo puerile abbozzo della divisione dei filamenti del DNA”. [Nastro di Möbius: Striscia di carta completamente ruotata (360°) le cui estremità vengono incollate tra loro. Se a striscia viene tagliata lungo la linea centrale, si ottengono due anelli intrecciati l’un l’altro, entrambi i quali hanno ereditato la rotazione originaria].

Nastro di Möbius 
Da un risultato di pura analisi chimica quantitativa, egli aveva estrapolato un concetto qualitativo sulla struttura del DNA: una struttura organizzata in maniera nastriforme con molecole appaiate (una purina con una pirimidina), ma anche una struttura che, dividendosi a metà (staccando ogni purina dalla sua pirimidina) dà luogo a nastri dimezzati coerenti con la divisione cellulare e con la trasmissione dell’informazione ereditabile. Egli definisce questa ipotetica struttura come campata in aria nonché come puerile abbozzo di divisione”, per il semplice fatto che poi egli e il suo gruppo di ricerca proseguirono le indagini sulla composizione chimica della molecola ma non sulla sua struttura.  
Questi studi di Chargaff risalgono ai primi anni cinquanta: 1951 e 1952, per l’esattezza. Erano molti e di gran calibro i chimici che in quegli anni indagavano la struttura del DNA. Uno di questi era Linus Pauling (1901-1904), ricercatore americano che riceverà a sua volta il premio Nobel per la Chimica nel 1954. Lavorando sui legami dei gruppi fosfato della molecola del DNA e ispirandosi alla forma elicoidale di proteine più semplici, nel 1953 aveva proposto un modello ad elica con una triplice catena.

Elica a triplice catena
Fonte İnfoCan - Opera propria, CC BY-SA 3.0
URL della fonte
Questo modello (abbastanza vicino al vero) confliggeva però con alcuni riscontri, per esempio con le foto eseguite in difrazione dei raggi X scattata da Rosalind Franklin nel 1952, la quale mostra una simmetria binaria, incompatibile con un modello a tripla elica.
  
Photo 51, scattata da Rosalind Franklin nel 1952
In questa situazione assai fluida e di grande competitività fra grandi gruppi di ricerca, accadde che Chargaff – che era in Inghilterra per una serie di convegni – incontrasse Watson e Crick a Cambridge. Mostrando un’ingenuità pari solo al suo delirio di grandezza, in quell’occasione egli li rese partecipi delle sue intuizioni. Qui di seguito alcuni brani (da accogliere con beneficio d’inventario) in cui egli rievoca quei momenti: “Incontrai per la prima volta Watson e Crick a Cambridge negli ultimi giorni di maggio del 1952 […] La prima impressione non fu certo buona […] I due, non gravati da alcuna cognizione chimica sull’argomento, volevano in qualche modo definire il DNA come un’elica; il principale motivo di ispirazione sembrava il modello a elica di una proteina […] Dissi loro tutto ciò che sapevo. Se avevano già sentito qualcosa sulle regole di appaiamento [le succitate Regole di Chargaff], essi non me lo dicevano, ma poiché sembrava che non sapessero gran che di qualsivoglia cosa, non mi stupivo troppo […] Quando, un anno più tardi, Watson e Crick pubblicarono la loro prima comunicazione sulla doppia elica, ignorarono il mio apporto” (da: Il Fuoco di Eraclito: pag. 134-7). Il risentimento di Chargaff viene qui espresso con l’eloquio corrosivo che gli è tipico e che gli ha alienato le simpatie dell’intera comunità scientifica: quel che conta, però, per gli intenti di questo post. è la dimostrazione di come Watson e Crick fossero estremamente abili nel carpire informazioni a proprio ed esclusivo beneficio. Per completezza d’informazione, bisogna aggiungere che Watson e Crick non hanno mai negato l’episodio narrato da Chargaff.

Credo che il contributo di idee di Chargaff sia stato essenziale per mettere sulla giusta via Watson e Crick. Senza nulla togliere alla loro indubbia capacità di condensare in un ottimo modello le conoscenze che si erano rese disponibili, mi chiedo ancora una volta perché essi non abbiano mai sentito il dovere morale di citare le fonti delle idee che hanno consentito loro di formalizzare la scoperta.
Chargaff meritava di essere citato e forse lo meritava anche Avery, senza la cui scoperta sarebbe forse passato molto tempo prima che il DNA diventasse l’oggetto di ricerca più ambito. E qui sorge una domanda di carattere generale: se la scienza è un’impresa collettiva dove chi viene dopo sfrutta il lavoro di tutti coloro che sono venuti prima, fino a dove corre l’obbligo della riconoscenza? A questa domanda non c’è, ovviamente, una risposta univoca. Bisogna giudicare di volta in volta quali sono i contributi più vicini e quelli che sono stati davvero fondamentali per far nascere la nuova intuizione. In una nuova scoperta di astronomia non si può risalire ogni volta a Keplero, a Copernico, a Galilei: ci si deve limitare ai contributi più prossimi che hanno consentito di scoprire qualcosa di nuovo. A volte può essere molto difficile individuare quanto indietro si deve andare per riconoscere il debito di riconoscenza. Nell’incertezza su chi fosse meritevole della loro riconoscenza, Watson e Crick risolsero salomonicamente il dilemma: non ringraziarono nessuno, riconoscendo unicamente di essersi ispirati al modello a elica suggerito da Pauling (James D. Watson. Nobel Lecture, 11 dicembre 1962: pag. 785-786 à vedi al link).

Corre l’obbligo di notare che solamente Maurice Wilkins, che ricevette il Nobel assieme a Watson e Crick, fu l’unico, nella sua Nobel Lecture, a menzionare i meriti di Rosalind Franklin, sua collega di laboratorio, e a ringraziare esplicitamente Erwin Chargaff per la sua scoperta riguardante l’equilibrio tra purine e pirimidine (Maurice H.F. Wilkins. Nobel Lecture,11 dicembre 1962: pag. 757 e 781 à vedi al link).    

domenica 10 dicembre 2017

JAMES MICHAEL CREETH (1924-2010) e la struttura del DNA

Come anticipato nel post pubblicato pochi giorni orsono, ripropongo – tradotto – l’articolo integrale comparso il 14 novembre sulla rivista The Conversation. L’articolo originale è consultabile online (URL dell’articolo). L’autore è Stephen Harding, Professore di Biochimica Applicata all’Università di Nottingham.

L’articolo viene qui riportato integralmente e senza modifiche in base alle condizioni della Creative Commons licence.


LO SCIENZIATO DIMENTICATO CHE HA LASTRICATO LA VIA DELLA SCOPERTA DELLA STRUTTURA DEL DNA 

J. Michael Creeth. University of Nottingham

Quando James Michael Creeth (1924-2010) ebbe finito di aggiungere acido al campione di DNA estratto dal timo di vitello, egli non stava semplicemente concludendo l’esperimento che lo avrebbe portato a conseguire il dottorato. Egli stava lastricando la via per la scoperta che avrebbe cambiato il mondo. Egli aveva 23 anni.
James Watson e Francis Crick (Vedi LINK) sono gli scienziati divenuti famosi per avere scoperto la struttura del DNA. A Rosalind Franklin e a Maurice Wilkins (VEDI LINK) si riconosce il merito di aver prodotto le fotografie che hanno reso possibile la scoperta. Tuttavia, sono molti gli scienziati – assai meno noti ma non meno meritevoli di gratitudine – il cui lavoro è stato di fondamentale importanza per quella che può essere considerata una delle più grandi scoperte del secolo.

Nell’autunno del 1947, Creeth e il suo supervisore per il dottorato avevano pubblicato il terzo articolo, di una serie di tre, scritti da ricercatori di quella che sarebbe diventata l’Università di Nottingham. Nell'articolo venivano portate le ultime evidenze necessarie per mostrare in quale modo le molecole che costituiscono il DNA sono legate tra loro. Dimostrando che il DNA contiene quella specie di “colla” molecolare che lega le molecole le une alle altre – i cosiddetti Ponti di Idrogeno –, questi ricercatori consentirono a Watson e a Crick di stabilire che la molecola del DNA ha la forma di due stringhe legate tra loro a formare una struttura a doppia elica. La loro scoperta, avvenuta sei anni dopo il lavoro di Creeth, ha dato origine alla genetica per come oggi la conosciamo.

Ma anche lo stesso Creeth aveva costruito un suo modello approssimativo della struttura del DNA, un modello non molto diverso da quello attuale e costituito da due catene legate da ponti tesi tra alcuni dei loro costituenti molecolari. Sfortunatamente, la sua scoperta sembra non essere stata captata e ben compresa praticamente da nessuno.
Ebbene, trascorsi settant’anni da quei fatti, l’Università di Nottingham ha celebrato l’anniversario della scoperta dei Ponti di Idrogeno nel DNA con una conferenza che si è tenuta proprio nell’edificio in cui la scoperta è stata fatta. Con l’occasione, all’ingresso dell’edificio è stata esposta una targa commemorativa (vedi al LINK)

Il mistero del DNA

Creeth era nato nel 1924 e aveva frequentato le scuole nella contea di Northampton. Studiò chimica in quella che sarebbe diventata l’Università di Nottingham dove conseguì il dottorato sotto la supervisione e la guida del Professor J. Masson Gulland e del Dottor Denis O. "Doj" Jordan, i quali gli diedero fiducia quando egli formulò le sue rivoluzionarie conclusioni.
In quegli anni vi era un crescente interesse attorno al DNA perché si sospettava che quella sostanza potesse essere associata all’ereditarietà e ai geni. Fino ad allora, la ricerca aveva dimostrato che la molecola era formata da "mattoni" chiamati nucleotidi. Ognuno di questi mattoncini conteneva uno zucchero chiamato desossiribosio, un gruppo fosfato, e una molecola azotata (chiamata "base") che era disponibile in quattro diverse varietà: timina (T), citosina (C), adenina (A), guanina (G). Ma come queste componenti fossero tenute insieme, come fossero organizzate e come i geni vi fossero inscritti, tutto ciò rimaneva del tutto misterioso. Sbagliando, alcuni scienziati pensavano che i geni fossero organizzati in forma sferica. Per svelare i segreti del codice genetico era necessario stabilire la vera struttura molecolare del DNA.

L’autore dell’articolo, Stephen Harding (a destra), e il Dr. Guy Channell confrontano il modello della struttura del DNA proposto da Creeth con quello di Watson e Crick

Alcuni studenti che lavoravano con Creeth –
 C.J. Threlfall H.F.W. Taylor – avevano già rivelato alcuni aspetti importanti. Threlfall aveva scoperto come purificare campioni di DNA in modo tale da poterne ricavare informazioni utili sulla sua struttura (URL articolo originale). Gulland, Jordan e Taylor studiarono il DNA purificato da Threlfall usando un metodo chiamato titolazione elettrometrica (o titolazione acido-base) che mostrava la variazione del pH (indice di acidità del mezzo) all’aggiunta di soluzioni acide o alcaline (URL articolo originale).
Non ottenendo i risultati che si attendevano, essi pensarono che ciò potesse dipendere dalla presenza di ponti di Idrogeno all’interno della molecola di DNA. Questo avviene quando gli atomi di Idrogeno condividono elettroni con altri atomi, per esempio Ossigeno e Azoto. Tali legami influenzano la struttura complessiva della molecola. Il conclusivo passo finale era stato compiuto da Creeth con un esperimento effettuato utilizzando una tecnica chiama viscosimetria. Questa tecnica fornisce informazioni sulla grandezza della molecola del DNA in relazione alle variazioni di viscosità della soluzione nella quale esso è disciolto.  

Aggiungendo acidi forti o soluzioni alcaline forti, la viscosità della soluzione (misurata come resistenza al flusso) calava bruscamente. Sulla base di questi esperimenti, Creeth, Gulland e Jordan conclusero che i Ponti di Idrogeno tenevano legate tra loro le basi di nucleotidi limitrofi. Gli acidi o le soluzioni alcaline distruggevano irreversibilmente tali ponti, spezzando la molecola del DNA in frammenti più piccoli, rendendo la soluzione più fluida.

Creeth e i suoi supervisori non proseguirono gli studi per cercare di determinare la struttura precisa della molecola. Non ostante ciò, essi dimostrarono che i ponti di Idrogeno hanno una importante funzione nel determinare la struttura della molecola di DNA.

Struttura del DNA: a sinistra il modello di Creeth; a destra il modello attuale
onte: Università di Nottingham)

Un modello perfettamente adeguato

Nella tesi di dottorato discussa nel 1947, Creeth aveva correttamente previsto che la molecola dovesse essere composta da due catene, ciascuna recante i glicofosfati (zucchero + fosfato) sul lato esterno e con le basi azotate verso l’interno della molecola e tenute insieme da ponti di Idrogeno. Questa struttura a due catene è risultata essere perfettamente adatta alle funzioni biologiche esercitate dalla molecola. I ponti di idrogeno sono sufficientemente forti per tenere assemblate le catene complementari ma sufficientemente deboli per lasciare che le catene vengano staccate l’una dall’altra per poter essere “lette” e “trascritte” dai meccanismi che devono copiare le istruzioni geniche nel momento in cui le cellule si dividono sdoppiandosi.      

Poco dopo queste importantissime scoperte, la squadra si disperse. Il professor Gulland rimase vittima di un incidente ferroviario mentre il dottor Jordan si trasferì prima a Princeton e poi all’Università di Adelaide, in Australia. Toccherà poi a Watson e a Crick a determinare la struttura precisa del DNA, ove la forza dei ponti di Idrogeno mantiene la forma elicoidale delle due catene.

Sebbene gli scienziati dell’Università di Nottingham non siano giunti a queste definitive conclusioni, il loro lavoro è stato di fondamentale importanza nel rendere possibile una delle più importanti scoperte della scienza moderna. Al momento del suo ritiro dall’attività accademica, guardando indietro a quegli avvenimenti Creeth ebbe ad affermare: “Col senno di poi, noi non demmo solo una rapida sbirciata, ma andammo abbastanza in profondità nell’esplorare quel particolare tipo di legame chimico, il quale è niente di meno che la chiave della vita sul nostro pianeta”. 

martedì 5 dicembre 2017

LO SCIENZIATO DIMENTICATO – QUANDO LA SCIENZA SI SCORDA DI ESSERE IMPRESA COLLETTIVA

Il 14 novembre, nella rubrica “scienza e tecnologia” della rivista online The Conversation (LINK) è stato pubblicato un articolo rievocativo di un fatto accaduto 70 anni fa e che dovrebbe far riflettere anche oggi. 

Si tratta di uno degli innumerevoli esempi che dimostrano che le scoperte scientifiche sono un’impresa collettiva ma è anche un esempio di come molti di coloro che partecipano all’impresa apportando contributi assolutamente determinanti possono venir dimenticati. Una volta dimenticati, lo si è per sempre. Questo non è bello: che qualcuno, talora, ci ponga rimedio è meritorio 


L'articolo di cui parlo ricorda i contributi e i contributori “dimenticati” di una delle più grandi scoperte del XX secolo: quella che riguarda la struttura del DNA e che fu premiata, nel 1962, col premio Nobel. L’articolo pubblicato da The Conversation e ripreso da molte altre testate si intitola: Lo scienziato dimenticato che ha lastricato la via per la scoperta della struttura del DNA (LINK).
Autore dell’articolo è Stephen Harding, Professore di Biochimica Applicata dell’Università di Nottingham il quale, il 31 marzo 2010 aveva pubblicato sull’Independent un articolo molto simile come necrologio del biochimico James Michael Creeth (LINK).   

In questo post riassumo, con qualche commento personale, i dati salienti della vicenda. In un prossimo post trascriverò, per completezza di informazione, l’articolo originale.
     
I fatti si riferiscono all’immediato dopoguerra. Nel 1945 un giovanissimo medico, il Dottor J. Michael Creeth, iniziava all’Università di Nottingham il suo dottorato in chimica su un argomento che cominciava a solleticare l’interesse degli scienziati: si sospettava infatti che il DNA contenuto nel nucleo delle cellule potesse avere un ruolo nella trasmissione ereditaria dei caratteri.

J. Michael Creeth (fonte: University of Nottingham)
Per cominciare a studiare la questione bisognava preliminarmente essere capaci di estrarre il DNA dalle cellule e di purificarlo senza alterarlo in modo sostanziale onde renderlo disponibile per studiarne la struttura molecolare. Per tali studi era indispensabile disporre di una molecola pura e in buono stato di conservazione: Il dottorato di Creeth consisteva appunto in questi studi preliminari. Il supervisore del dottorato era il Professor J. Masson Gulland e il tutor era il Dottor Denis O. Jordan. Facevano parte del team anche due brillanti studenti: C.J. Threlfall e H.F.W. Taylor. Nei tre anni del dottorato il team lavorò intensamente. I due studenti misero a punto tecniche efficaci e riproducibili per estrarre il DNA dalle cellule del timo di vitello ma ebbero alcune difficoltà nel trovare il giusto livello di acidità della soluzione  per mantenere stabile il DNA estratto. 

Fu proprio questa difficoltà che mise Creeth sulla strada giusta. Lo spirito della scienza consiste proprio nel come si affrontano le difficoltà che si incontrano strada facendo. Queste possono essere aggirate e superate, ma la cosa che nelle scienze conta maggiormente è essere in grado di far “parlare” le difficoltà. Spesso ci si trova in difficoltà perché le nostre ipotesi non collimano con la realtà o i risultati degli esperimenti non corrispondono alle attese. Le difficoltà che incontriamo sono una spia che ci annuncia che le cose non stanno esattamente come crediamo che stiano. In modo un po’ criptico, le difficoltà ci indicano la strada: saperla trovare – vale a dire comprendere come mai ci siamo trovati in difficoltà – è ciò che ci si aspetta da un buon scienziato. Il dottorando Michael Creeth intuì la ragione delle difficoltà. Si trattava della presenza di Ponti di Idrogeno che tenevano legate tra loro le subunità di cui è costituita la molecola del DNA. Creeth pubblicò un articolo sui Ponti di Idrogeno e su questo argomento egli scrisse anche la tesi di dottorato (il ponte di idrogeno è un punto di contatto tra atomi – Ossigeno o Azoto – con un atomo di Idrogeno col quale condividono un elettrone: l’elettrone condiviso forma il “collante” che tiene assieme gli atomi). I ponti di Idrogeno, formano punti di contatto rigido tra molecole o tra diversi punti di una stessa molecola. Sono questi legami rigidi a conferire una forma stabile alle molecole. Il fatto che gli studenti trovassero difficoltà a mantenere stabile la molecola variando l’acidità della soluzione in cui essa era contenuta era dovuto al fatto che un ambiente troppo acido o troppo poco acido spezza i Ponti di Idrogeno e fa perdere stabilità alla molecola. 
A disposizione di Creeth c’erano anche altre informazioni sulla molecola del DNA. Le analisi chimiche avevano rivelato che la molecola aveva le seguenti caratteristiche generali: a) era formata da subunità; b) era formata da uno zucchero (il desossiribosio); c) conteneva fosfati (piccoli gruppi molecolari formati da Fosforo e Ossigeno); d) conteneva una molecola azotata che era presente in quattro diverse varietà: timina (T), citosina (C), adenina (A), guanina (G). 
Conoscendo i pezzi del puzzle ed avendo compreso il ruolo dei ponti di Idrogeno, il giovanissimo dottorando si sentiva in grado di proporre uno schema della struttura del DNA e discusse a lungo della sua idea con il tutor e col supervisore. Alla fine, confortato e supportato dall'approvazione dei suoi superiori, completò la tesi di dottorato inserendovi la propria ipotesi sulla struttura del DNA. Era il 1947. A 23 anni, Creeth – primo nella storia della scienza  aveva proposto un verosimile modello della stuttura del DNA
Guarda caso, (non di caso si tratta, ma di sapere scientifico), il modello da lui proposto è molto vicino al modello oggi universalmente noto.

Struttura del DNA: a sinistra il modello di Creeth; a destra il modello attuale
(fonte: Università di Nottingham
Questa è la prima parte della storia. Ora si arriva al dunque
Che parte ebbe Creeth nella assegnazione del Nobel? Che parte ebbero il suo tutor e il supervisore? E gli studenti che avevano messo a punto le tecniche e avevano evidenziato una imprevista difficoltà?
Nessuna, ovviamente.
Ma come, nessuna?
Nessuna!

Terminata la tesi di dottorato, Creeth se ne andò per la sua strada. Il Professor Gulland, il supervisore, morì di lì a poco in un incidente ferroviario, Il Dottor Jordan, i brillanti studenti e lo stesso Creeth ebbero una più che soddisfacente carriera accademica, ma nulla a che vedere con i fasti del Nobel. Tutto il loro lavoro culminato nella tesi di dottorato di Creeth finì in una specie di limbo costituito dagli articoli pubblicati in una rivista scientifica riposta in qualche scaffale più o meno polveroso delle biblioteche universitarie. E lì stette per parecchio, mentre gli autori si sparpagliavano qua e là per il mondo.

E poi?

Come finirono le cose è la parte nota della vicenda, vicenda che culminò con la consegna, nel 1962, del premio Nobel per la Medicina a James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins. Senza nulla togliere alle capacità e alle intuizioni di questi signori ai quali si deve la scoperta della struttura della doppia elica del DNA, bisogna dire che la loro vicenda non fu particolarmente esaltante per chi ha a cuore un’immagine pura e romantica della scienza. 

Watson (sin) e Crick (dx) a Cambridge nel 1953 con il loro modello del DN
S'è detto che la scienza è un'impresa collettiva. Ognuno fa un passetto in avanti. Chi viene dopo, sale metaforicamente sulle spalle di chi è venuto prima e, tutti insieme, si porta il testimone verso la meta. Questa cosa, a Watson, a Crick e a Wilkins, forse, non gliel'aveva detta nessuno. Detto in parole brevissime, il nocciolo della questione si può riassumere così. Provenendo da strade diverse, lo statunitense Watson e l’inglese Crick vennero a trovarsi all’Università di Cambridge per studiare la struttura del DNA.Contemporaneamente, al King's College di LondraMaurice Wilkins, Rosalind Franklin e Raymond Gosling studiavano la struttura del DNA con metodi cristallografici. Alcune foto scattate da Rosalind Franklin suggerivano una struttura elicoidale della molecola. Maurice Wilkins, senza informare la Franklin, mostrò la famosa photo 51 (LINK) a Watson e a Crick i quali, a loro volta, avevano usato i metodi di Creeth e compagnia per purificare e analizzare il DNA. Mettendo insieme tutte le informazioni, Watson e Crick – mettendoci la loro genialità – costruirono il modello che diede loro il Nobel e la fama e, a noi, un modello certo su cui lavorare. 
Alla Franklin e a Gosling neppure un grazie. A Creeth e a tutto il gruppo dell’Università di Nottingham neppure una menzione. Sic transit gloria mundi. Per chi fosse interessato a un brevissimo ma significativo ritrattino delle personalità di Watson e Crick si rimanda all’articolo pubblicato da Wired nel 2014 e intitolato La scoperta della doppia elica (LINK). Quanto al pessimo trattamento riservato a Rosalind Franklin, alla vicenda ho dedicato un post cui rimando (LINK).

Rosalind Franklin
Questa è la fine un po’ amara della storia. La scienza è un'impresa collettiva e non può essere altro. È una scala a pioli in cui tutti i pioli sono necessari per salire. Qualcuno, purtroppo, come nella vita di tutti i giorni, fa di tutto affinché i riflettori puntati su alcuni pioli si spengano. In una notte buia, le stelle più grandi sembrano ancora più grandi: se le innumerevoli piccole stelle si attenuano o si spengono, nella loro arrogante superbia quelle più grandi risplendono ancora di più. Palesandosi come piccoli uomini tanto orgogliosi quanto meschini, ci sono grandi scienziati che sanno prendere da chi condivide, ma si guardano bene, essi stessi, dal condividere. Sono gli assi-piglia-tutto della scienza: montano sulle spalle degli altri, nani o giganti che siano, senza nemmeno ringraziare e forse, nel loro narcisismo, senza nemmeno accorgersene. Anche di questo vive la scienza, purtroppo. Non ostante ciò, lo ribadiamo: la scienza è un’impresa collettiva che si avvale, anche, di improvvisi colpi di genio ma che funziona perché tutti, a turno, tirano il carro.

L’articolo di Stephen Harding sulla vicenda di Michael Creeth è un importante e doveroso riconoscimento-risarcimento all'uomo che ha lastricato la via per la scoperta della struttura del DNA ma anche all’immagine della scienza che tutti vorremmo avere. Da par suo, l’Università di Nottingham, che è stata testimone di quei lontani fatti, nel settantesimo anniversario del dottorato di Creeth ha inaugurato una targa commemorativa alla presenza della moglie del chimico inglese. 

La moglie di Creeth, Patricia, di fronte alla targa commemorativa
Termino con un paio di curiose coincidenze (inquietanti come solo le coincidenza sanno essere) e con una doverosa notazione. Una coincidenza riguarda il fatto che Creeth e Crick sono nati entrambi a Northampton: è ben curioso che due scienziati che per vie del tutto indipendenti  e in tempi diversi sono arrivati al medesimo risultato, con tutti i luoghi in cui si può nascere, siano nati proprio nel medesimo luogo. Una seconda coincidenza è che, in inglese, i loro cognomi si pronunciano quasi esattamente nello stesso modo: "cric" e "criit"). 

La doverosa notazione è la tardiva ammissione da parte di Watson del contributo ideale di Creeth e compagni alla comprensione da parte di Watson e di Crick della struttura del DNA. In un libro di memorie scrisse: "La lettura dei lavori di Creeth, Gulland e Jordan sulla titolazione acido-base del DNA mi fece finalmente apprezzare la forza delle loro conclusioni sul fatto che una gran parte delle basi, se non tutte, si legavano ad altre basi attraverso ponti di Idrogeno” (Watson J.D. The Annotated and Illustrated Double Helix. Simon & Schuster, New York, 1968: p.197).




domenica 19 novembre 2017

COS’È LA SCIENZA? – INDICE RAGIONATO DEGLI ARGOMENTI TRATTATI

In virtù dello spiccato senso pratico che è caratteristico delle donne, un’assidua lettrice di questo blog ha suggerito la creazione di una sorta di indice ragionato degli argomenti trattati nella serie dedicata alla scienza. Il suggerimento dell’amica lettrice è molto sensato.


Con cinque post dedicati a cercare l’essenza della scienza attraverso le definizioni che di essa si danno, cui si aggiungno tre post dedicati a capire se detta essenza è riducibile al metodo che la scienza impiega e un ulteriore post conclusivo sul discrimine tra scienza e non-scienza, la carne messa al fuoco è stata davvero tanta. Inoltre, chi capitasse su uno dei post intermedi farebbe una certa fatica a raccapezzarsi senza sapere cosa s’è detto prima e cosa s’è detto dopo. Eccomi quindi costretto ad un’operazione per cui sono negato: ridurre in estrema sintesi le lunghe e contorte argomentazioni sul tema: MA LA SCIENZA, CHE COS’È?


Pur venendo associata a concetti apparentemente chiari, la parola SCIENZA è alquanto vaga. Non ha un significato univoco e indiscutibile. Alla parola scienza vengono associate forme di ricerca della conoscenza di diverso genere. La classica suddivisione tra scienze esatte e scienze umane pone chiaramente i termini del problema. Con i miei ragionamenti mi ero riproposto di rispondere a due domande: 
1) esiste una definizione di scienza sufficientemente larga per includere tutte le forme di scienza che, con serietà e con rigore, ambiscono a costruire una forma di conoscenza del mondo, ma sufficientemente restrittiva per escludere quelle attività cognitive che non possono essere include nella categoria delle scienze? 
2) Ammesso e non concesso di individuare, attraverso definizioni o attraverso una serie di criteri che cosa è scienza e ciò che non lo è, come si distingue una scienza da una pseudoscienza o da una falsa scienza? Queste, le pseudosciene e le false scienze, costituiscono un vero e proprio pericolo sociale perché diffondono informazioni false o poco attendibili sulla cui base tutti noi effettuiamo scelte individuali e scelte politiche.
È con questi scopi in mente che ho scritto la serie di post dedicati alla natura della scienza e dei criteri per distinguerla dalla non scienza. Quello che segue è un indice ragionato degli argomenti e dei concetti che sono stati affrontati.

INDICE RAGIONATO DEI CONTENUTI


l post si apre con l’affermazione che l’idea che abbiamo della scienza è una “idea debole”: abbiamo bene in mente che cos’è la scienza ma se vogliamo darne una definizione “chiara e precisa” ci troviamo in difficoltà, la stessa difficoltà che i filosofi e i fisici hanno avuto (e hanno tuttora) con l’idea di “tempo”.
Per capire meglio come si possa definire la scienza in modo chiaro e univoco, riporto quattro definizioni paradigmatiche tra le centinaia che sono disponibili in rete. Nei post successivi, si analizzano criticamente le quattro definizioni, mettendo in luce le inesattezze, i luoghi comuni e le trappole che si trovano – direi quasi "necessariamente" – in tutte le possibili definizioni di scienza. Il problema emerge sostanzialmente dal fatto che "definire" significa "delimitare, accogliere o escludere". Alcune definizioni sono troppo larghe e troppo inclusive, altre hanno le maglie troppo strette, e finiscono con l’escludere troppo.

In questo secondo post metto me stesso in guardia dal pensare di poter facilmente trovare una soluzione al mio problema affidandomi alla definizione di scienza e ricordo che Darwin, nel pubblicare il suo famoso saggio sulle specie, si rifiutò di definire la specie affermando che sarebbe stato come cercare didefinire l’indefinibile”. 
La prima definizione che prendo in considerazione è la più classica delle definizioni, ed è quella fornita da Wikipedia che recitava:

 “Per scienza si intende un sistema di conoscenze ottenute attraverso un'attività di ricerca prevalentemente organizzata e con procedimenti metodici e rigorosi, allo scopo di giungere ad una descrizione verosimile, oggettiva e con carattere predittivo, della realtà e delle leggi che regolano l'occorrenza dei fenomeni”   


Nell’analizzare questa definizione mi soffermo criticamente su molti termini: “sistema di conoscenze” (e rivolgo la mia critica terminologica sia sul versante del “sistema” che su quello delle “conoscenze” e della “conoscenza” stessa). Altri termini su cui mi soffermo sono “ricerca”, “procedimenti”, “scopo”, “descrizione”, “vero”, “verosimile”, “oggettivo”, “realtà”, “leggi”. Sono tutti termini, questi, che rivestono una notevole importanza nell’universo terminologico e concettuale che ruota attorno all’idea di scienza. Su alcuni di questi termini ragionerò anche nei post successivi. Quanto alla definizione di scienza data da Wikipedia, pur con parecchie critiche esprimo un parere relativamente favorevole, per lo meno riguardo certi aspetti. Il problema è che in tutte le definizioni c’è del buono ma nessuna è in grado di fornire risposte complete e definitive alle mie domande.  

La seconda definizione che prendo in considerazione è la discutibile quanto superficiale definizione reperita su Yahoo Answers e giudicata dai richiedenti, ahimé, come “migliore risposta”. La definizione recitava:

"La scienza è quella disciplina che permette di comprendere in modo sicuro i meccanismi e i fenomeni della natura, permette l'evoluzione tecnologica dell'uomo e espande la conoscenza. Consiste nella ricerca e sperimentazione, con metodo empirico"  


Di questa definizione critico innanzitutto il termine “disciplina” usato come sinonimo di scienza. Critico il termine “comprendere”  – nella locuzione “permette di comprendere” – a causa dello sfacciato realismo ottimistico sotteso implicitamente alla locuzione medesima che è direttamente riferita a termini come “meccanismi” e “fenomeni”. Critico anche il concetto di “certezza” implicito nella locuzione “in modo sicuro”, e una certa quanto improvvida sovrapposizione tra i concetti di “utile” e di “vero”, due anime della scienza da tenere ben separate e distinte.

In questo post prendo in considerazione l’elementare e stringatissima definizione proposta in un blog indirizzato agli studenti e che si chiama, non a caso, SkuolaBlog:

La scienza è uno strumento per esplorare la realtà che ci circonda in modo profondo e accurato; descrive come è fatto il nostro mondo e come funziona

Nell’esaminare la definizione e la platea cui essa è rivolta non ho potuto esimermi dal giudicarla “semplice, chiara e leggera” e mi sono espresso anche in maniera favorevole all’idea di definire la scienza come uno “strumento”. Il pregio di tale termine è ancora più apprezzabile in quanto usato nella locuzione “strumento per esplorare”, ove l’uso del termine "esplorare" mi è parso quanto mai attinente all’idea (la mia, per lo meno) di scienza. Con tutti i limiti di una definizione essenziale, quella di SkuolaBlog è una buona definizione ed ha, per di più, il pregio di non introdurre termini restrittivi, tali da escludere dal novero delle scienze questa o quella disciplina.  

La quarta ed ultima definizione presa in considerazione è stata quella estrapolata dal sito della Enciclopedia Treccani online.

"La scienza é l'insieme delle discipline fondate essenzialmente sull’osservazione, l’esperienza, il calcolo, o che hanno per oggetto la natura e gli esseri viventi, e che si avvalgono di linguaggi formalizzati. 
Fu concepita inizialmente (principalmente con G. Galilei) come concezione del sapere alternativa alle conoscenze e alle dottrine tradizionali (relative al modello aristotelico-tolemaico), in quanto sintesi di esperienza e ragione, acquisizione di conoscenze verificabili e da discutere pubblicamente (e quindi libera da ogni principio di autorità). 
Successivamente il ruolo della scienza si è andato via via rafforzando dal punto di vista sia sociale e istituzionale, sia metodologico e culturale, e la scienza è diventata uno degli aspetti che meglio caratterizzano, anche per le innumerevoli applicazioni tecniche, il mondo contemporaneo e i valori culturali che esso esprime" 

A differenza di quella fornita da SkuolaBlog, la definizione data da Treccani è complessa, tripartita, lunga (quasi ridondante), colta, e che ambisce a rivolgersi a un pubblico colto ed esigente.
Definendo la scienza come “l’insieme delle discipline”, Treccani usa un termine – “disciplina” – che avevo criticato nella definizione data da Yahoo Answers ma, utilizzandolo al plurale, Treccani fornisce una giusta connotazione della scienza come impresa multipla. Tuttavia la definizione di Treccani tende a mescolare, e a non tenere ben distinti, i concetti di “scienza” (al singolare) e di “scienze” (al plurale). Quella di Treccani è una definizione che ho definito “prudente”: infatti, essa usa con misura – quasi con circospezione – termini come “osservazione”, “esperienza”, “calcolo”, “linguaggi formalizzati”, “verificabile”, “da discutere pubblicamente”, “sintesi di esperienza e ragione”, “sapere”, “applicazioni tecniche”, e non si impantana in questioni come quelle della “realtà” o della “verità”. Intelligentemente e prudentemente, anche la definizione tratta da Treccani non introduce termini o vincoli che possano escludere alcuna delle discipline umanistiche dal novero delle scienze.
L’excursus sulle definizioni NON mi ha consentito di individuare un discrimine tra “scienze” e “non scienze”. Nell’ipotesi che ragionare sul cosiddetto metodo scientifico potesse fornirmi gli strumenti di discrimine cercati, ho dedicato tre post a sviluppare un mio “discordo sul metodo” (ma non essendo Cartesio, l’ho fatto a modo mio).  

Nel primo post dedicato al METODO”, affronto un tema preliminare al metodo, vale a dire quello dello “scopo” per perseguire il quale applico un determinato metodo. Lo “scopo”, quindi, viene prima del “metodo”. Ma la questione diventa complessa fin da subito: a fronte di uno “scopo” generico che è quello di "capire qualcosa del mondo che ci circonda", il vero scopo della scienza si duplica in due scopi diversi e concettualmente molto diversi tra loro: uno è quello di acquisire una conoscenza vera e oggettiva”, mentre l’altro – più ragionevole – è di acquisireinformazioni sempre migliorabili”, che poi è il vecchio scontro tra “essenzialismo” e “nominalismo”. I metodi da applicare per il primo scopo non sono sempre necessariamente gli stessi da applicare per perseguire il secondo scopo. Lo scopo o gli scopi, poi, non appartengono alla scienza, ma alla Weltanschauung di chi la usa, di chi la fa, della società che ne trae i benefici o ne sopporta le conseguenze. La questione del metodo, quindi, non è riducibile al metodo: va molto più in là. Riguarda anche, l’oggetto sottoposto a indagine scientifica. E qui ci si inoltra negli ambiti divergenti costituiti dalle scienze esatte (dure) e delle scienze (umane (molli). I questi due ambiti distinti, la questione di base, quella che vede contrapposte la conoscenza oggettiva a quella utile, si fa ancora più complessa, ma potrebbe trovare una composizione nella mediazione fornita dal territorio neutro del “come se”: Facciamo come se questa conoscenza utile fosse anche una conoscenza vera e oggettiva…”.
Dopo questa introduzione che non induce all’ottimismo, passo a discutere del più classico e paradigmatico dei metodi scientifici: il metodo induttivo baconiano del quale racconto le virtù e i piccoli difetti   

Dopo aver discusso, nel post precedente, del metodo induttivo (quello più razionale e sperimentale, quello che – per semplificare – partendo dal particolare consente di formulare leggi dal valore generale), in questo post ci si occupa del metodo deduttivo (quello più logico, che partendo da considerazioni generali consente di fare predizioni particolari). Il ragionamento deduttivo che in origine era appannaggio dei logici e dei metafisici, assume valenza scientifica nel momento in cui viene associato all’esperimento.  
In questo post si discute anche di “approssimazione” e di “errore” e di come la scienza debba tener conto sempre e metodologicamente dall’errore il quale, di fatto, le appartiene strutturalmente e costitutivamente. Di per sè, ciò dovrebbe escludere automaticamente dalla scienza l’idea della “verità” certa e assoluta. Si ragiona inoltre  di “condivisione” e di come questa sia un necessario strumento di critica interna e di verifica per limitare l’errore.
Nel post si discute anche di “esperimento”, di “misurazione”, di “calcolo”, di "fatti”. Si discute della contrapposizione tra il “riduzionismo metodologico” di cui l’esperimento è una espressione, e della contemporanea esigenza di poter abbracciare con l’occhio dell’intelletto la visione di insieme che è forse qualcosa di più della sommatoria dei dettagli.  E si parla anche di “monismo metodologico”, vale a dire della pretesa di riunire “con la potenza oggettiva della misurazione e del calcolo, tutte le scienze in un’unica scienza”. Pretesa assurda, ovviamente.

L’ultimo post sul metodo, riagganciandosi alla questione della “condivisione”, affronta il tema della “comunicazione”, della “comprensione”, del “linguaggio”, dei “linguaggi iniziatici”. E ancora si parla di “rigore”, di “riproducibilità”, di “fatti”, di “dimostrazioni”. Si tenta, quindi, una distinzione metodologica tra il procedere “logico”, che segue prevalentemente una direzione “top-down” (ove la tesi da dimostrare viene prima della procedura per dimostrarla), e il procedere "scientifico", che segue prevalentemente un atteggiamento “bottom-up” (ove l’ipotesi viene prima di tutto, ma la procedura precede la dimostrazione o la formulazione di leggi generali).
Si nominano poi due elementi fondamentali nelle scienze (ma un po’ misconosciuti): il “caso” e il “dubbio”. Il “caso”, le cui contingenze devono essere sempre riconosciute e considerate; il “dubbio”, che è l’anima scettica della scienza, il suo vaccino contro la presunzione di sapere, il suo stimolo al controllo, alla verifica, alla ripetizione, alla condivisione. Ed è grazie al dubbio che la “verità”  viene esclusa metodologicamente dalle prospettive dell’operare scientifico. Ciò che ambisce a definirsi scienza deve assumere come “assunto metodologico” tale atteggiamento verso le conoscenze scientifiche. Si prende poi una netta posizione contro il “monismo metodologico” e si afferma testualmente che ogni disciplina ha i propri obiettivi, i propri metodi, le proprie caratteristiche costitutive. Pretendere l’eguaglianza ontologica e metodologica tra discipline diverse equivale a mettere in atto del tutto erroneamente un eccesso di egualitarismo normativo”. Il Post si conclude affermando che se nelle scienze umane gli obiettivi, i metodi, il rigore, e l’atteggiamento mentale nei confronti del vero, del dubbio, della condivisione, della dimostrabilità, della accuratezza, sono i medesimi applicati dalle cosiddette scienze esatte, allora, in questo caso, non si vedono motivi per negare lo statuto di scienza alle discipline umanistiche.  

Le conclusioni si riferiscono a due temi: il primo riguarda il saper distinguere ciò che è scienza da ciò che non lo è in modo particolare per quel che riguarda le discipline umanistiche nei confronti di quelle "esatte". Il secondo tema, socialmente ancora più rilevante, riguarda il saper distinguere le scienze vere da quelle false, le "pseudoscienze" che millantano un metodo e uno status, con scopi spesso ideologici o poco leciti.
Quanto al primo tema, nel post si afferma che a mano a mano che ci si allontana dal nocciolo duro delle scienze esatte e ci si inoltra in quello delle discipline umanistiche i criteri si sfumano e divengono più flessibili. Ciò non toglie che, badando alla sostanza ed abbandonando il terreno delle definizioni rigide, e applicando con rigore ed elasticità i criteri descritti nei vari post, non è per niente difficile riconoscere la scientificità di innumerevoli studi umanistici.
Quanto alle pseudoscienze, la situazione è più complicata perché esse spesso si adornano di criteri, mezzi, espressioni, linguaggi fortemente mimetici rispetto a quelli utilizzati dalle scienze e ne assumono quasi l’aspetto. Ma il mimetismo, in natura, nasconde spesso l’inganno. Ci vuole esperienza e accortezza per distinguere la pseudoscienza dalla scienza. Nella prima, la “verità” è costruita in laboratorio e non passa al vaglio verificatore della collettività scientifica. La pseudoscienza propone “verità esenti da dubbi”. La pseudoscienza traveste con l’abito dei “fatti” le “opinion”, i “desideri”, i “pregiudizi”, le “ideologie”, le “preferenze”, tutti articoli – questi – che lo scienziato lascia fuori dalla porta del laboratorio. Il post si conclude affermando che il saper distinguere tra scienza e pseudoscienza non consente solamente di fare scelte migliori ma è una grande responsabilità, individuale e politica, perché dalle scelte dipende il nostro presente e il nostro futuro.