sabato 31 dicembre 2016

DONNE DA NOBEL - QUESTIONE DI GENERE E RITROSIE GIORNALISTICHE

La sera di martedì 27 dicembre, scorrendo i titoli della versione online del Corriere della Sera (www.corriere.it) levai un silente ma alto e sentito plauso al giornale medesimo per un breve editoriale – a firma “Redazione di Roma” – intitolato È morta VERA RUBIN, l’astronoma che scoprì la “materia oscura” (vedi a questo link).


L’articolo redazionale era breve e, in certo qual modo, perfetto. In poche frasi si diceva: a) chi fu Vera Rubin; b) Quale fu la scoperta che la rese famosa; c) che cos’è la “materia oscura” da lei scoperta e qual è l’importanza della scoperta in relazione a come riteniamo sia fatto l'universo. L’editoriale si concludeva col rammarico che la scienza ufficiale non le avesse assegnato un più che meritato premio Nobel, così come avvenne nel caso del Nobel negato alla biologa Rosalind Franklin per il contributo alla scoperta del DNA (ricordo ai lettori di questo blog il tributo che diedi a Rosalind Franklin nel post intitolato DNA: NUOVA ICONA DELLA CULTURA POP (vedi a questo link).


Una giovane Vera Rubin al telescopio (dal sito brainpickings.org) 

Quanto alla “materia oscura”, l’articolo riferiva che il nome è dovuto al fatto che non emettendo alcuna radiazione elettromagnetica (come luce o calore), la materia oscura non è visibile direttamente. La sua esistenza è stata desunta come unica spiegazione possibile a fronte di alcuni fenomeni osservati e studiati… La materia oscura rappresenta il 27% della massa dell’intero universo”.
Quanto al premio Nobel che non vinse, l’articolo affermava nonostante abbia ottenuto numerosi riconoscimenti, la Rubin non vinse mai il Nobel per la Fisica. Così come non lo ottenne Rosalind Franklin la cui ricerca fu determinante per i Nobel per la Medicina assegnati nel 1962 a James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins, cui è stata riconosciuta la scoperta del DNA, il codice della vita”.

Una giovane Rosalind Franklin (dal sito radionz.co.nz)


Date le premesse, mi fece piacere vedere sul giornale di carta in edicola il giorno successivo l’articolo a firma Giovanni Caprara intitolato La Pioniera che scoprì l’esistenza della materia oscura (vedi a questo link)un titolo un po’ diverso da quello dell’edizione online del giorno precedente.


Rispetto al breve redazionale del giorno precedente, l’articolo di Giovanni Caprara è più corposo e racconta un po’ più in dettaglio alcuni momenti salienti della carriera di Vera Rubin come quello, per esempio, di essere stata la prima astronoma donna ad essere ammessa all’Osservatorio di Monte Palomar, a quel tempo l’osservatorio più potente del mondo. Nel corso dell’articolo, si afferma anche che Vera Rubin aveva confermato uno degli enigmi più importanti dell’universo, l’esistenza della materia oscura”. A differenza dal titolo ove si recita scoprì l’esistenza, qui si recita aveva confermato l’enigma”, e si richiama il fatto che la presenza della materia oscura fosse stata postulata nel 1933 dall’astrofisico svizzero Fritz Zwicky. Detta così, sembra che Vera Rubin sia stata solo in grado di confermare un'ipotesi. Confrontando il redazionale online con l’articolo di Giovanni Caprara, il lettore del tutto ignorante di astrofisica come me ha l’impressione che il contributo alla conoscenza dell’universo dato da Vera Rubin passi dallo statuto di contributo fondamentale   descritto con le parole l’astronoma che scoprì nel 1974 l’esistenza della materia oscura, quella strana “cosa” ... senza la quale lo stesso non esisterebbe   allo statuto di una più modesta riconfigurazione delle forze in campo, descritta da Caprara con le parole Il disegno del cielo è cambiato e diventato più preciso grazie a Vera Rubin”. 

Materia oscura: rappresentazione di fantasia (dal sito university.it)


Ed eccomi arrivato, dunque, alla forte delusione che mi ha provocato l’articolo di Caprara rispetto all’editoriale del giorno precedente. In questo si faceva riferimento al Nobel negato (o meglio, mai assegnato) e al parallelismo con la vicenda della povera Rosalind Franklin. Nell’articolo di Caprara si fa solo riferimento al fatto che Vera Rubin lamentasse di una scarsa presenza delle donne nella Accademia delle Scienze Americane. Una bella differenza di taglio nei due articoli, anche tenendo conto che – nel caso si possano fare dei confronti tra il caso della Rubin e quello della Franklin secondo me il contributo cognitivo personale in ambito astrofisico della Rubin è stato superiore quello della Franklin in ambito biologico.

In buona sostanza, il taglio dato all’editoriale online aveva suscitato in me  ignorante in materia  un forte interesse attorno alla vicenda e mi aveva stimolato a ragionarci su. La stessa vicenda narrata da Giovanni Caprara, più dettagliata e articolata e forse anche più aderente alla realtà dei fatti, è risultata meno intrigante. La rimozione della questione di genere  che nelle scienze è tutt’altro che irrilevante  ha sottratto alla notizia uno spunto di ragionamento importante. 
La prima domanda che viene spontanea è chiedersi il motivo della rimozione della questione di genere: é stata giudicata irrilevante o non pertinente alla commemorazione della scienziata, oppure si è preferito ridurre di una tacca la rilevanza del contributo scientifico della Rubin in modo da non sollevare scomode questioni di genere?
Ci sono tre dettagli dell’articolo di Caprara che mi fanno propendere per la seconda ipotesi. Il primo è l’utilizzo che egli fa della parola pioniera”. La parola pioniere indica chi arriva per primo, chi apre una strada e, in questo senso è perfettamente adatto alla vicenda della Rubin. Tuttavia, questa parola è più debole, secondo me, del riferimento alla scoperta (come quando nel titolo si dice scoprì). La parola pioniere evoca l’immagine di una persona che, da sola e lontana dagli altri, arriva per prima, forse anche troppo presto rispetto agli altri. E se uno arriva troppo prima del tempo, ciò potrebbe giustificare il fatto che il suo contributo non venga adeguatamente riconosciuto (o premiato). 
Il secondo dettaglio è quello di avere “declassato” il contributo della Rubin dallo statuto di scoperta allo statuto di conferma alle ipotesi dell’astrofisico svizzero Zwichy.
Il terzo dettaglio è quello di aver sostituito l’idea del Nobel non attribuito all'astrofisica donna con l'idea molto più soft della banale lamentazione riguardante lo scarso posto occupato delle donne nelle scienze degli Stati Uniti d’America. 

Com’è come non è, se l’editoriale online mi aveva stimolato a ragionare sulla cosa, le sottrazioni apportate all’articolo del giorno successivo mi hanno ancor più sollecitato in tal senso.
Sono andato a documentarmi direttamente sul sito dell’Accademia Svedese che assegna i premi Nobel (www.nobelprize.org).  Nella sezione riguardante le donne ho trovato i dati qui sotto riassunti (vai al sito): 


Periodo
Donne premiate
1901-1920
4
1921-1940
5
1941-1960
3
1961-1980
7
1981-2000
11
2001-2015
19


Questi numeri assoluti (che sono meno impressionanti dei dati percentuali) lasciano perplessi. A parte il fatto che negli anni cinquanta non fu attribuito nessun premio Nobel al femminile, il fatto che tra il 2001 e il 2015 si siano dati alle donne un numero di premi Nobel solo cinque volte superiore a quelli assegnati tra il 1901 e il 1920 fa pensare male, se si tiene conto dello straordinario numero di ricercatrici donne oggi in attività rispetto a quante ce n’erano nei primi anni del ‘900.

I dati raccolti dal sito del giornale inglese The Telegraph sono ancora più impressionanti. Dall’articolo intitolato Vincitori del premio Nobel – Quante donne hanno vinto il premio? (vai all’articolo originale) si evince che dal 1901 al 2015 ci sono stati 825 vincitori maschi e 49 vincitrici femmine (pari a 5.4%). Negli anni ’50 è stata l’apoteosi maschile: nessun premio Nobel è stato assegnato a quelle stupide gonnelle. Dal 2010 al 2015, le vincitrici femmine sono state l’11.1%, percentuale che è ancora straordinariamente poco rappresentativa dell’effettivo numero di scienziate in attività.
Nella tabella qui sotto riportata, che ho tratto dalla rivista Fortune semplificandola leggermente (vedi articolo originale), riporto i dati scorporati per categoria. 




Premi assegnati alle femmine per categoria 1901-2015

Categoria

%

Chimica
4
2.33
Fisica
2
1.0
Economia
1
1.32
Letteratura
14
12.5
Pace
16
12.4
Medicina e Fisiologia
12
5.71


Come si può ben vedere, le gonnelle – sembra dire la tabella –  se la cavano benino nello scrivere romanzi e nelle tecniche di riappacificazione ma sono negate per la chimica, la fisica, e l’economia. Questi dati sembrano voler confermare un cliché cui, però, è difficile credere. Viene da farsi la classica domanda pleonastica: Le cose stanno davvero così o la causa di questo squilibrio va ricercata altrove?”.
Ovviamente, la causa va ricercata altrove ma non è da ricercarsi esclusivamente nel bieco maschilismo dominante. La faccenda sembra essere più complicata anche se non ci si può nascondere il fatto che un forte pregiudizio favorevole agli uomini – in termini economici, in termini di lobby, in termini politici ed accademici – giochi un ruolo prevalente. Se si trattasse di scegliere unicamente la migliore persona dell’anno in una certa disciplina, la cosa sarebbe più facile, anche se i pregiudizi favorevoli al maschio sarebbero forti in ogni caso. Ma non si tratta di scegliere la migliore persona dell’anno. Per quanto riguarda le scienze, si tratta di giudicare la strategicità della scoperta, il possibile impatto scientifico ed economico a lungo termine, i dipartimenti e le università coinvolte nelle ricerche e la continuità che tali dipartimenti hanno dato e daranno in quel filone di ricerca, la disponibilità di sponsor politici e industriali per lo sviluppo delle tecnologie collegate. In tutti questi aspetti collaterali alla ricerca è noto che gli uomini ci sguazzano (e tessono relazioni vincolanti) assai più volentieri che le donne (fino ad oggi).  

Mary Ann Liebert ha una carriera tutta dedicata allo sviluppo delle riviste scientifiche e presiede il consiglio di amministrazione di un gruppo che pubblica ottanta riviste di altissimo profilo nel campo della biologia, della genetica e delle biotecnologie. Ha fondato e sostiene la Rosalind Franklin Society  (vai al sito)  che ha per obiettivo il sostegno alle giovani ricercatrici di talento. Secondo Mary Ann Liebert, uno dei fattori – forse non quello determinante – è un fattore psicologico che fa sì che, nei comitati che propongono e votano i candidati ai premi Nobel, gli uomini raramente propongano le donne e le donne, curiosamente, si comportino nello stesso modo come se, psicologicamente, anche le donne fossero condizionate da qualche forma di sessismo che privilegia gli uomini.
Lo sbilanciamento delle candidature è anche dato dalla composizione delle commissioni che selezionano i candidati. Un esempio per tutti è quello della commissione per le candidature che riguardano la fisica. Ne fanno parte:
  1. Membri svedesi e non svedesi appartenenti alla Reale Accademia Svedese delle Scienze;
  2. Pregressi vincitori del premio Nobel in Fisica;
  3. Titolari della cattedra di Fisica delle Università di Svezia, Danimarca, Finlandia; Islanda, Norvegia, dell’Istituto Karolinska di Stoccolma, e di almeno sei università di altri paesi bilanciati per area geopolitica e selezionati dalla Accademia delle Scienze Svedese;
  4. Altri eventuali scienziati di spicco che l’Accademia delle Scienze ritenesse utile invitare.

Benché si stia qui parlando prevalentemente di istituzioni del nord Europa dove la teorica parità tra i sessi non è in discussione, non ci si può tappare gli occhi di fronte al fatto che la maggioranza di Vincitori di premi Nobel, di membri della Accademia delle Scienze e di titolari di Cattedra o di Dipartimento sono di sesso maschile.

Con ciò si evince che, anche in assenza di sotterfugi e di manovre poco chiare, ci sono sufficienti motivi tecnici, politici e psicologici che determinano un forte squilibrio di genere nell’assegnazione dei premi Nobel. Detto questo, non si capisce perché non se ne possa parlare serenamente. Non si capisce perché un articolo nel quale si faceva cenno al tema degli squilibri di genere, dalla sera alla mattina si dovesse autocensurare cambiando faccia e natura, quasi che ci si vergognasse di parlare di un tema che richiederebbe, invece, un dibattito serio, aperto e sereno. 

giovedì 22 dicembre 2016

LA MISTERIOSA SCOMPARSA DELL’OSSO PENICO E LE FAKE NEWS


Per la serie: come si mutilano e si travisano gli studi scientifici, adattandoli alla propria parziale visione del mondo e trasformandoli in ghiotte occasioni di giornalismo pruriginoso. 

Nel quattordicesimo capitolo dell’ultima edizione dell’Origine delle Specie (sesta edizione, 1872), Darwin discute per sei pagine del peso che hanno nella sua teoria gli organi rudimentali, atrofizzati e abortivi. 



A prima vista, sembra curioso che Darwin si interessi a organi imperfetti, disfunzionali o inutilizzati per dimostrare che tutte specie discendono in linea continuativa da altre specie che le hanno precedute. Su questo punto, però, le parole di Darwin sono chiare e sicure: «Possiamo concludere che la presenza di organi rudimentali, imperfetti, inutili o abortiti, lungi dal rappresentare una difficoltà, sono financo prevedibili secondo le spiegazioni qui fornite». Le spiegazioni cui Darwin si riferisce sono quelle della continuità genealogica tra le specie: la permanenza di organi che non servono più a niente dimostra, ancor più degli organi utili, che le specie discendono le une dalle altre.
Ai tempi della pubblicazione dell’Origine delle Specie (e non solo allora), i detrattori di Darwin valutavano con sospetto queste affermazioni e non erano molto disponibili a prenderle per buone. Mi domando che cosa avrebbe fatto Darwin se avesse visto che oggi perfino l’assenza di un organo è utilizzata per confermare la discendenza delle specie le une dalle altre (cosa, questa, che molti hanno ormai accettato), e che, addirittura, c’è qualcuno che sostiene che i comportamenti culturali possono essere la causa immediata e diretta della scomparsa di certi organi.



Procediamo con ordine perché la materia è sottile e richiede un po’ di attenzione.


Qualche giorno fa è scoppiato il misterioso caso della scomparsa, nella nostra specie, dell’osso penico. La vicenda, in tutta la sua evidente gravità, è diventata virale ed è rimbalzata dalla rete alla carta stampata e viceversa, con varie titolazioni: 

  • Evoluzione: Perché gli esseri umani non hanno l’osso del pene? Tutte le ipotesi (Il Corriere della Sera); 
  • Avevamo un osso nel pene, PERSO per la “monogamia”: studio choc (ilcorrierecitta.com);
  • L’uomo perse l’osso del pene forse a causa della monogamia (La Repubblica); 
  • L'uomo aveva un osso nel pene, ecco perché è scomparso (Adnkronos.com); 
  • RIMPIANGERE l’osso del pene (Il Foglio). 

Tali titolazioni (che si ritrovano tal quali anche nella stampa estera) esprimono il senso della tragedia assieme al un genuino senso di smarrimento per un'età dell'oro andata perduta per sempre.
Prima di addentrarmi nel mistero dell’osso scomparso, vorrei chiedere agli amici psico-antropologi di fornirmi un dettagliato profilo psicologico di chi, sito per sito, testata per testata, si è reso responsabile dei vari titoli dati alla notizia, in modo particolare riguardo a espressioni come “Perso per [colpa della] monogamia”, o Rimpiangere”, espressioni che fanno tutt’uno, credo, col vagheggiamento di prestazioni roccosiffrediane. Aprire questa discussione ci porterebbe troppo lontano dalle questioni di cui vorrei discutere qui. Per farlo, come d’usanza, mi riferisco in primis all’articolo scientifico originale da cui è partito tutto questo putiferio tragico dell’osso andato perduto.

Due parole, innanzitutto, sugli autori: si tratta di Matilda Brindle e di Christopher Opie. Matilda Brindle è una giovanissima dottoranda che lavora all'University College di Londra. Il coautore, Christopher Opie, è un giovane assistente della stessa università, un biologo con all’attivo poco più di una dozzina di pubblicazioni di biologia evoluzionistica e di antropologia sociale. Due ragazzi molto attivi, capaci e determinati, dunque, ma con una carriera ancora troppo breve per poter essere considerati capiscuola o opinion leader.
Passiamo, quindi, all’articolo il cui titolo originale è: La selezione sessuale postcopulatoria influenza l’evoluzione dell’osso penico (baculum) nei primati e nei carnivori (clicca qui per accedere all’articolo originale).
Detta in maniera semplice, i ricercatori si sono domandati: come mai alcuni animali possiedono un osso all’interno del pene ed altri no? Dal punto di vista dell’evoluzione, la presenza di quest’osso si correla eventualmente con le strategie riproduttive delle specie che lo possiedono?
Dopo particolari analisi statistiche la loro conclusione è stata che, si, è ragionevole pensare che la presenza dell’osso penico sia correlato con strategie riproduttive di quelle specie in cui il seme del maschio deve competere col seme di altri maschi per riuscire a fecondare la femmina.

Competizione per il seme

Per chi volesse continuare la lettura, ora si entrerà un po’ più nel dettaglio di questo studio.


Uno dei punti di partenza speculativi della ricerca in oggetto è che dal punto di vista anatomico e funzionale quest’osso – il baculum – è in grado di proteggere l’uretra maschile (il canale di inseminazione) durante i rapporti sessuali molto prolungati, caratteristici di alcune specie animali prevalentemente non monogamiche. Tuttavia, fino ad oggi, non erano stati compiuti studi specifici atti a dimostrare in modo certo questa relazione anatomo-funzionale. Applicando particolari metodi statistici su un numero molto elevato di specie di mammiferi e tenendo conto dei modelli evolutivi che riguardano la filogenesi di dette specie, i giovani ricercatori sono giunti ad affermare che – statistiche alla mano – la presenza del baculum è correlata con la durata dell’intromissione del pene nella vagina e che, se le cose stanno davvero così, l’evoluzione deve aver giocato un certo ruolo nel determinare tale correlazione. Dati statistici alla mano, i due ricercatori affermano che, nelle specie dotate di baculum, l’evoluzione ha favorito, attraverso il meccanismo della selezione sessuale, il passaggio da una condizione di una breve durata dell’intromissione del pene in vagine alle situazioni caratterizzate da un’intromissione più prolungata. Appare comunque piuttosto intuitivo che, in caso di vagine molto lunghe in specie in cui il periodo di fertilità è limitato nel tempo e nel caso in cui una femmina possa essere coperta da più maschi, la possibilità di fecondare la femmina sia facilitata da apparati che consentono un’inseminazione più profonda e più ricca. Sebbene i ricercatori non abbiano speso una sola parola sull’argomento, potrebbe risultare implicito che il baculum non sia di nessun vantaggio selettivo in caso di accoppiamenti di breve durata (tali sarebbero quelli della specie umana).
I due ricercatori inglesi, dopo aver descritto i risultati della loro analisi, pongono un’osservazione molto sensata – direi fondamentale e che nessun giornalista divulgativo si è curato di menzionare. L’osservazione è che ci possono essere altri fattori, oltre a quelli valutati nello studio, che possono avere influenzato le dinamiche evoluzionistiche riguardanti la permanenza o meno dell’osso penico e che, su tali fattori abbiamo tuttora le idee ben poco chiare. Nei ricercatori, la sincerità è molto apprezzabile ed è un corollario indispensabile alla loro credibilità (e altrettanto sarebbe auspicabile per tutte le professioni).

Terminata la discussione sui risultati “oggettivi” del loro lavoro, i due ricercatori (sottovalutando i rischi collegati alla categoria delle “cause”) aprono a congetture proprio sulle eventuali “cause” e sugli eventuali “perché” l’evoluzione del baculum sia arrivata al punto in cui è arrivata.  Per fare ciò, essi cercano di collegare le loro risultanze statistiche con ipotesi di lavoro che hanno a che fare con la strategia riproduttiva poligamica di numerose specie. Essi affermano: «I sistemi riproduttivi basati sulla poligamia e situazioni che limitano l’accoppiamento a brevi periodi stagionali creano le condizioni di elevati livelli di selezione sessuale postcopulatoria. In queste condizioni di elevata competitività, un’intromissione prolungata [e quindi la presenza dell’osso penico] fornisce al maschio maggiori possibilità di fertilizzare la femmina». Non una parola sulla specie umana e non una parola sulla presunta tragedia per l’uomo della perdita dell’osso penico.

Le inferenze sulla specie umana e quelle che danno una connotazione di “perdita” alla mancanza dell’osso nell’uomo, sono opera di un cosiddetto giornalismo che, guardando al sensazionalismo, tradisce non solo la serietà dei ricercatori ma anche la buona fede del lettore cui viene somministrata una bufala dotata di verosimiglianza, spacciata per “scientificamente provata” e travestita con gli abiti della ricerca pura, la quale, però, mantiene il suo senso solo è comunicata senza distorsioni o omissioni. A questo genere di inferenze bisognerebbe attribuire il premio Paul Horner (premio che mi pregio di istituire in questo momento), dal nome dell’uomo che gestisce un impero mediatico costituito da siti web che propongono e diffondono – attraverso i più noti social network – notizie false (fake newes), contando sul fatto che "molte persone leggono qualunque cosa che confermi le loro idee, senza porsi domande” (parole testuali di Paul Horner, non mie).

Diffusione di false notizie attraverso i Social Forum

Uno dei miei timori, quando leggo il giornale o navigo in rete, è che tali distorsioni ci vengano propinate in continuazione e su qualunque argomento: come lettore sono particolarmente indifeso nei confronti della falsificazione a mezzo stampa e dalla scarsa attenzione prestata da alcuni giornalisti alla qualità intrinseca delle notizie che diffondono.


Fake News

Ultime brevi riflessioni critiche sulla questione. 


Un certo qual principio di economia (o rasoio di Occam applicato alla biologia) vorrebbe, semplicisticamente, che ciò che è utile permanesse e ciò che è inutile si estinguesse. Magari!! Applicato all’osso penico, detto principio farebbe in modo che la selezione naturale lo preservasse unicamente dove è utile e lo eliminasse là dove inutile. Questo presupporrebbe che l’utilità dello strumento fosse palese prima ancora della formazione dello strumento stesso e in anticipo rispetto all’azione della selezione naturale. Se fosse così, nella savana dove le foglie commestibili stanno sulla cima degli alberi, tutti gli animali avrebbero il collo lungo come le giraffe o la proboscide come quella degli elefanti. In biologia le cose non funzionano in modo così lineare. Comportamenti e strumenti sono il risultato di una miriade di condizionamenti; essi co-evolvono, si adattano l’uno all’altro. Inoltre, va sottolineato  che l’evoluzione somatica (quella degli strumenti anatomici) richiede tempi enormemente lunghi rispetto all’evoluzione dei comportamenti e che sono questi ultimi, eventualmente, a dipendere dai primi. In definitiva, affermare che i maschi umani sono privi dell’osso penico (che tanto “rimpiangono”) per il fatto di aver abbracciato una cultura e un comportamento prevalentemente monogamico, o che “l'assenza dell'osso penico è una conseguenze delle scelte sessuali”, è una vera e assoluta fesseria, e molti diffusori di notizie (usurpatori del titolo di giornalista) non sono riusciti ad andare oltre un sensazionalismo pruriginoso di bassa lega.

Anche il vecchio Spock è d'accordo