mercoledì 7 luglio 2021

PERCHÉ NON SI SA COSA C’É DENTRO

“Perché non si sa cosa c’è dentro” è uno dei mantra ricorrenti dei NoVax. Ovviamente si sa benissimo che cosa c’è dentro, e anche che cosa non c’è (metalli pesanti, cellule di embrioni umani o di feti morti, fantomatici 5G e amenità simili). 

Per sapere che cosa c’è dentro, per esempio nel vaccino Vaxzevria (Astrazeneca), è sufficiente cliccare QUI, link che rimanda al foglietto illustrativo reso disponibile dalla Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). 


Chi, leggendo il foglietto al primo punto del paragrafo 6 (che cosa contiene Vaxzevria), si turbasse nel leggere “*Prodotto in cellule renali embrionali umane (HEK 293) geneticamente modificate  mediante tecnologia del DNA ricombinante”, può trovare rassicurazione e consolazione cliccando QUI, articolo di facta.news che spiega bene che il vaccino NON contiene cellule embrionali modificate. É vero che queste cellule entrano a far parte del ciclo produttivo del vaccino costituendo il naturale terreno all'interno del quale vengono "coltivati" i virus (l'adenovirus vettore della proteina Spike del coronavirus). Ma nulla hanno a che fare col vaccino come prodotto finale. In fondo, sarebbe come rifiutarsi di gustare una buona ricotta perchè la mucca da cui si è ricavato il latte viveva in una stalla piena di mosche. L'importante è che le mosche se ne stiano nella stalla ma stiano alla larga dal latte e dalla ricotta.  

La questione quindi non è non si sa che cosa c’è dentro ma, eventualmente, “non ci interessa per niente sapere che cosa c’è dentro, perché siamo contro, punto e basta”.

A questi signori vorrei chiedere: - Mangiate lo zucchero? Ne mettete un paio di cucchiaini nel caffè? Mangiate torte o biscotti che ne contengono un bel po’? Bevete le bibite più comuni che ne contengono tantissimo? (in una lattina di coca cola, per esempio, ce ne sono 35 grammi, circa 7 cucchiaini). Bene. Vi consiglio di leggere QUI, la voce di Wikipedia dove si descrive come viene prodotto la dolce sostanza.

Per i più pigri o per i più indaffarati, se ne riporta qui un breve estratto che rende evidente come il processo di purificazione dello zucchero sia frutto di una chimica moderna ma che deriva da saperi contadini dal sapore antico.  

Barbabietole da zucchero

Dopo aver trinciato le barbabietole in frammenti di pochi millimetri, questi vengono immersi in un flusso continuo di acqua calda (69-73 °C) nella quale la barbabietola rilascia gran parte della sostanza zuccherina contenuta nella polpa. Questa acqua dolcificata (chiamato succo grezzo) contiene molte altre sostanze che andranno rimosse, ma contiene anche micro-organismi (funghi e batteri) che si nutrono di zucchero. Per evitare che questi ne consumino una parte, alla soluzione vengono aggiunti vari disinfettanti. Per rimuovere le altre impurità, al succo viene aggiunto il latte di calce (idrossido di calcio o calce spenta). Questa operazione rimuove varie sostanze (zolfo e solfati, fosforo e fosfati, citrati, ossalati, proteine, saponine, pectine, ecc.). Alla fine del processo si aggiunge anidride carbonica per rimuovere il latte di calce. Così facendo, però, nel succo si accumula il carbonato di calcio che viene rimosso aggiungendo anidride solforosa (sostanza notoriamente nociva). A questo punto si aggiunge anidride carbonica e carbonato di calcio per ridurre i contaminanti sulfurati (lo zolfo addizionato in precedenza). Il succo zuccherino che si ottiene è però di colore molto scuro e si rende necessaria la sua “chiarificazione” che viene portata a termine utilizzando il cosiddetto carbone animale (detto anche nero di ossa), prodotto bruciando ad alta temperatura (400-500 °C) ossa di animali provenienti dai macelli (bovini, suini, ovini). [Credo che a questo punto del racconto i vegani stretti si strapperanno i capelli]. Eliminate le ultime impurità col carbone animale, il succo viene fatto restringere al calore, facendo evaporare l’acqua concentrando così la sostanza zuccherina. Da qui si ottiene una melassa dolce con ancora parecchie impurità che vanno ulteriormente rimosse mediante l’aggiunta di altra anidride solforosa che viene successivamente rimossa ripetendo alcuni dei cicli sopra descritti. Alla fine lo zucchero viene fatto cristallizzare, e buon appetito.

Morale della favola.

Le morali in realtà sono parecchie. La prima è che riguardo gran parte dei prodotti che usiamo, ingurgitiamo o ci vengono somministrati, noi tutti siamo piuttosto ignoranti su cosa c’è dentro”, ma questo non ci mette troppo in ansia né cambia le nostre sane o malsane abitudini. Quindi perchè prendersela proprio con i vaccini e non, per esempio, con i wurstel, le merendine del supermercato o il vecchio caro zucchero? La seconda è che non è vero che non si sa cosa c’è dentronei farmaci e nei vaccini, che sono sottoposti a sistemi di controllo tra i più rigidi e trasparenti. Se davvero lo vogliamo, abbiamo a disposizioni tutti i mezzi che ci servono per saper "cosa c'è dentro". La terza (e l’esempio dello zucchero è paradigmatico in questo senso) bisogna fare dei distinguo tra processo e prodotto. Può essere che nel processo vengano utilizzate sostanze inquietanti (si sa, per esempio, che per chiarificare certi vini bianchi si usano il sangue di bue o gelatine animali), ma questo non vuol dire che il prodotto ne risulti contaminato. Il prodotto è cosa ben diversa dal processo. Pensiamo alle idee che ognuno di noi partorisce, buone o cattive che siano. Il processo coinvolge cellule animali (quelle del nostro cervello), cariche elettriche, sostanze nutritive ed altre di scarto (che vanno a finire dove ognuno di noi sa bene). Ma una volta partorite, le idee (il prodotto) viaggiano leggere di mente in mente, di libro in libro, di blog in blog, e condizionano ogni nostro agire. Un conto è il processo. Ben altra cosa è il prodotto. 

Naturalmente, la sicurezza e la condotta morale devono essere trasparenti e verificabili in ogni punto del processo. Se qualcuno, su questo o quel passaggio, ha remore morali o perplessità tecniche, è più che legittimato a sollevarle. L’importante, però, è discutere su fatti veri e verificabili (e quasi sempre lo sono), senza impugnare come armi contundenti pezzi addomesticati di fatti, che così facendo cessano di essere fatti e diventano falsità.


 

   

 

 

 





giovedì 27 maggio 2021

Il COVID E LA CALAMITÁ DEL PENSIERO SUPERFICIALE

Nell’edizione online del Fatto Quotidiano (25 maggio) è stato pubblicato un post intitolato E se, senza accorgercene, stessimo diventando come il virus che combattiamo? [CLICCA QUI, se proprio vuoi]

Incuriosito, l’ho letto e vi ho trovato una critica al fatto che, a parte qualche scapigliato negazionista, tutti noi ci siamo adattati più o meno a malincuore a sacrificare una parte di affettività e di “normalità” in cambio di una maggiore sicurezza nei confronti del virus e dei suoi effetti. Una critica condivisa da molti, si dirà. Sì, ma quel che conta sono i modi e le argomentazioni di questa critica, per me assurda ma legittima a livello di opinione personale.

La mia primissima reazione al post, senza ancora aver letto il nome dell’autore, è stata analoga a quella  del mitico ragionier Ugo Fantozzi quando, portato di peso al cineforum per guardare l’altrettanto mitico film La corazzata Potëmkin (Ejzenštejn, 1925), al termine della proiezione esclamava: «... è una cagata pazzesca!».

Fotogramma da La corazzata Potëmkin 

Solo a questo punto ho sollevato lo sguardo per leggere il nome dell’autore e vi ho trovato scritto Diego Fusaro (saggista e opinionista), un laureato in filosofia convinto perciò di essere pensatore e filosofo.

Subito dopo l'iniziale e spontanea reazione ho dovuto rivedere il mio affrettato giudizio, notando quanto il post di Fusaro brillasse di raffinata superficialità. Una banalità di pensiero che non solo offende le centinaia di migliaia di vittime e i loro parenti, ma offende il pensiero tout court. Non a caso, infatti, uno dei molti commenti dei lettori chiede all'autore: le dicono niente i più di 125 mila morti?)”. Un altro lo accusa di aver scritto ciò che ha scritto per voler raccattare residui consensi prima che la crisi abbia fine e un terzo ammonisce Primum vivere, deinde philosophari”.  

Ma che cosa afferma l’autore di tanto banale da costringermi a prendere la penna in mano? Poco di significativo, tutto sommato, e con diverse ripetizioni. Il tutto può essere condensato in un’unica frase: «Il nostro vivere, da più di un anno, è decaduto a mero sopravvivere, a mero desiderio di conservare la propria unità biologica; in nome della logica immunitaria, siamo disposti a rinunziare a ogni qualificazione della vita, pur di guadagnare la sopravvivenza. Una vita despiritualizzata che si riduce a mero processo biologico».

Occorre ragionare un minuto sul concetto di normalità.

La normalità è una strada lastricata: è comoda per camminare ma non vi cresce alcun fiore

Quello che fondamentalmente manca all'analisi dell’autore sulla temporanea sospensione dalla cosiddetta e tanto venerata normalità”, è che questo momento straordinario (proprio perché fuori dall’ordinario) ha offerto un'opportunità unica di cogliere e apprezzare elementi fondamentali della vita (fisica e spirituale) che la “normalità” rende spesso invisibili. Questo dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti, tant’è che viene sottolineato anche nei commenti di alcuni lettori i quali affermano, per esempio, «io in questo anno ho continuato a vivere, forse lei a sopravvivere», oppure «ho riscoperto un sacco di cose che mi mancavano cercando di "sopravvivere"».

Molto ci è stato sottratto da questo anno di limitazioni, ma molte persone – direi le più intelligenti e sensibili – hanno scoperto che era proprio la normalità a defraudarli di introspezione e del senso della vita, da ricercare tra le pieghe dei suoi dettagli (un sorriso, una parola, una strizzata d’occhio appena sopra la mascherina, una telefonata, una poesia, una canzone, una pagina di un libro, un’emozione, una passeggiata, la voce di un amico, pensieri in precedenza inesplorati, le forme delle nuvole, e via dicendo).

La conservazione della propria unità biologica (per usare le parole dell’autore) sono la conditio sine qua non affinché noi, i nostri amici e i nostri cari, possano continuare non solo a vivere biologicamente ma anche godere di ogni istante della vita dandogli quel senso profondo che spesso la normalità sommerge di banalità. In maniera diametralmente opposta a quanto afferma l’autore, la vita non viene despiritualizzata ma, al contrario, potenzialmente riempita da nuovi contenuti spirituali. È sufficiente cercarli. È sufficiente provarci. È sufficiente pensarci, cosa che a quanto pare i nostalgici della normalità non sempre riescono a fare, nemmeno nei momenti straordinari.

venerdì 14 maggio 2021

IL COVID E IL DISAGIO DEI SENSI

David Grossman è un autore che mette al centro della propria narrativa il complicato mondo delle emozioni e delle relazioni umane. 

E non è certo un caso che alcuni titoli dei suoi romanzi richiamino direttamente il corpo, le sue azioni, le sue sensazioni: “L’abbraccio”; “Rughe”; “L’uomo che corre”; “Che tu sia per me il coltello”; “Qualcuno con cui correre”; “Con gli occhi del nemico”; “Ci sono bambini a zig zag”; Rughe. Storia di un nonno”; “Col corpo capisco”. In quest’ultimo romanzo, una frase recita: «L’intero corpo talvolta può dolere per la nostalgia di un abbraccio che non c’è più».

Non è nemmeno un caso che nei linguaggi della danza e del teatro il corpo sia al centro dell’azione e dell'espressione comunicativa.  

Foto da una recita del Teatro Patologico, Roma (foto di Riccardo Roberti)

Il corpo, dunque, come fulcro di interazione col mondo. Lo scoppio della pandemia ha sconvolto la relazione reciproca tra corpo e mondo. Ha relegato i corpi all’inatteso ruolo di veicolo del contagio e ha imposto loro una significativa separazione dagli altri corpi, provocando una sorta di mutilazione della loro funzione cognitiva e comunicativa. In conseguenza di ciò, com’è cambiato il nostro modo di conoscere, comunicare, accogliere il mondo dentro di noi e porre noi stessi all’interno del mondo? Cos’è cambiato nell’ineffabile rapporto tra corpo e anima (come dicevano i filosofi antichi) o tra corpo e mente, come diciamo noi, confondendo un poco ciò che appartiene alla ragione e ciò che appartiene allo spirito?

Platone, che poco si curava dei problemi della vita quotidiana degli uomini ma aspirava al più alto e spirituale mondo delle idee, nel Fedone definisce il corpo come una disgrazia, una prigione che impedisce all’anima di accedere alla conoscenza pura: «fino a quando abbiamo il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo».   

Confrontato a Platone, su questo tema Aristotele sembra quasi un illuminista quando, superando addirittura d’un balzo quello che sarà il dualismo cartesiano tra corpo e realtà psichica (anima e ragione), afferma  che quest'ultima è un «atto del corpo», vale a dire che anima e corpo sono un’unica indissolubile articolazione di materia e di forma (Sull'anima).[1]

Oggi ci sentiamo più vicini ad Aristotele che non a Platone e ben supportati dalle solide conoscenze della fisiologia, prendiamo per buono il fatto che il mondo entri in noi attraverso gli organi di senso. Alla scuola elementare insegnano che l’uomo possiede cinque sensi: vista, gusto, tatto, udito, olfatto. Qualcuno osa di più, aggiungendone altri. Tra questi, la percezione termica è un senso importante quando ci si rapporta fisicamente col mondo, mentre il cosiddetto senso del tempo è fondamentale per stabilire una relazione dinamica tra noi e il mondo. Questo entra dunque dentro di noi attraverso gli organi di senso e, una volta incarnato nella memoria e tradotto in modelli e relazioni, diventa esperienza e conoscenza, disseminando nella mente i punti di riferimento necessari a definire la forma, la sostanza e le relazioni attraverso cui identifichiamo noi stessi e gli altri. Durante la pandemia il mondo dei sensi, in particolare quelli tattili, termici e il senso del tempo, sono entrati in crisi a causa soprattutto del distanziamento e dell'isolamento. 

Una nozione scientifica relativamente recente che ha a che fare con la relazione tra le persone è quella dei cosiddetti neuroni specchio, scoperti nel 1995 da un gruppo di ricercatori dell'Università di Parma (Giuseppe Di Pellegrino, Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Vittorio Gallesecoordinato da Giacomo Rizzolatti. Molto si è discusso e si discute ancora sulla funzione di questi neuroni e sul loro ruolo nello sviluppo di peculiarità umane. Un fatto assodato è che tali neuroni si attivano osservando gli altri compiere dei gesti. Tale attivazione consente di incorporare il gesto altrui nei circuiti neuronali di chi ha solo osservato quel gesto. Incorporare dentro di sé i gesti altrui è un po’ come mettersi nei panni altrui e questo è un meccanismo che prelude all’empatia, vale a dire condividere con l’altro il sentire, anche i sentimenti più profondi.

neuroni specchio à empatia

L’empatia dunque è un costrutto che richiede un’interazione quanto più prossima con l’altro. Il distanziamento sociale, le mascherine che coprono il viso, l’interazione esclusivamente telematica, sono tutte condizioni che limitano l’azione dei neuroni specchio, rendendo più problematica la relazione empatica. Per fortuna, la specie umana ha coscienza del proprio apprendimento culturale. Questo fa sì che l’azione del neurone specchio possa essere vicariata dall'idea di ciò che crediamo l’altro senta in una determinata condizione, salvando in tal modo una buona parte delle nostre relazioni empatiche.

Le misure di contenimento della circolazione del virus (il distanziamento fisico e la mascherina), ci limitano il contatto visivo e ci privano di quello fisico, per esempio un abbraccio, con le persone. La conseguenza di questo contatto dimezzato è che non percepiamo più – attraverso i sensi – il calore, l’odore, la consistenza fisica, le rughe attorno alla bocca e così via delle persone con le quali entriamo in relazione. Ci vengono a mancare stimoli fisici di varia natura che costituivano, fino a ieri, l’essenza e l’identità delle persone con le quali entravamo in relazione. Questa alterazione sensoriale genera confusione e comporta ulteriore distacco, anche sul piano mentale. Sorprendentemente però, appartenendo a una specie relativamente sociale, di fronte di questa situazione inconsueta ci viene spontaneo cercare un nuovo adattamento. Entrando in questa relazione dimezzata con le persone, ci troviamo così, a poco a poco, a registrare e a incarnare dettagli che in precedenza andavano persi. Notiamo maggiormente la postura, registriamo note della voce che in precedenza non avevamo notato e, in luogo della mimica delle labbra, registriamo ora la mimica degli occhi. Insomma, deprivati di alcune sensazioni fondamentali, andiamo alla scoperta di altre che prendono il posto di quelle perdute. Perdiamo alcuni punti di riferimento ma scopriamo nuovi segnali.   

Il distanziamento dalle cose e dalle persone imposto dalla pandemia, il prendere le distanze dai corpi degli altri ma anche dalle nostre stesse mani (potenziale vicolo di infezione), la riduzione della perlustrazione fisica del mondo, la reclusione del corpo e dei suoi sensi in bolle autonome e individuali, tutto ciò provoca una deprivazione sensoriale che a lungo andare provoca disadattamenti, per quanto ci sforziamo di trovare adattamenti alternativi.

C’è un altro elemento, un’altra causa molto importante di disadattamento di cui però poco si parla. Se da una parte lo spazio attorno a noi si restringe (non si viaggia, si lavora e si studia tra le pareti di casa, si passeggia o si pratica sport nelle immediate vicinanze di casa”), il tempo al contrario si dilata. A volte si ha la sensazione di essere bloccati in una bolla di presente, di non riuscire a strutturare la dimensione futura del tempo e di non riuscire a pianificare le nostre azioni in quella dimensione. Questa condizione rischia di “uccidere” la dimensione del desiderio, perché questo trova i suoi punti esistenziali di riferimento proprio nella dimensione del futuro, nella pianificazione simil-onirica di azioni e avvenimenti che si dovranno svolgere in quella dimensione che va a poco a poco atrofizzandosi nella mente, come se tra il presente e il futuro si fosse frapposta una cortina di fumo, o un colpo di vento avesse spazzato via le lancette degli orologi.

Immagine dal film “Il posto delle fragole” (Ingmar Bergman, 1958)

Le neuroscienze una certa idea di come il cervello elabori la dimensione spaziale ce l’hanno. Ma di come la mente elabori la dimensione temporale e quali siano le dinamiche attraverso cui si genera il cosiddetto tempo soggettivo”, vale a dire quella fisarmonica che allunga o restringe la coscienza del trascorre del tempo in relazione alla sfera emotiva, di tutto questo le neuroscienze ci dicono ancora troppo poco. Ci dicono, per esempio, che il senso del tempo viene elaborato dal sistema limbico assieme alle reazioni emotive, ai meccanismi della motivazione e della gratificazione. Molto più di così, su come si generi il senso del tempo, le scienze ahimè non sanno dire.

La struttura paleoencefalica chiamata sistema limbico è costituita da più elementi, qui evidenziati con colori vivaci

Se le scienze, quelle dure, non se la sentono proprio di porre ipotesi sull’argomento, la psicologia e la filosofia lo fanno. Eccome se lo fanno! E allora, molto di ciò che sappiamo o crediamo di intuire sull’argomento deriva ancora dalla psicologia (scienza “molle” che da decenni ha adottato con rigore il metodo scientifico) e da approcci filosofici che, da William James a Husserl e a Heidegger, da Merleau-Ponty a Bergson e a Ortega y Gasset, hanno sempre intessuto con la psicologia grandi storie d’amore.



[1] Su questi temi vedi anche Sara Drioli: Essere corpo. Fra la filosofia fenomenologica e la pratica clinica (LINK) 

lunedì 26 aprile 2021

INGENUITY. LA SVOLTA DI GENERE DELL'AGENZIA SPAZIALE AMERICANA

Si chiama Ingenuity. È il primo elicottero costruito dalla mano dell’uomo a volare nella rarefatta atmosfera marziana. Ingenuity è un manufatto, una sofisticata tecnologia, ma non è solo questo: è il frutto concreto dalla convergenza di più scienze e tecnologie. 

Il suo primo volo ha avuto l'onore di qualche titolo di giornale ma non ha provocato quell’ondata di entusiasmo delle prime volte epocali. Sarà perché l’umanità è raggelata (e riportata molto indietro nel tempo) dai più terreni problemi legati alla pandemia, oppure perché è stata super-distratta da un concomitante terremoto calcistico dal nome roboante, SUPERLIGA. 

Visto in televisione, mezzo che distorce lo spazio non meno del tempo, Ingenuity si è mosso su e giù per alcuni secondi come il più banale dei nostri droni casalinghi con cui giocano anche i bambini terrestri, non solo i marziani. 

Ecco qui, dunque, il primo volo marziano (cliccare qui per vedere il volo).

Il primo volo di Ingenuity

Ma il tema che qui si propone non è quello, peraltro legittimo, di gioire per l’evento tecnologico in sé, evento che al momento non sembra mutare di molto il destino del mondo. Come sempre, mi diverto a scostare un poco il velo di Maya, alla ricerca di piccole curiosità nascoste tra le pieghe dell’evento.

Vi sono due elementi che mi hanno colpito in questa faccenda. Due elementi che riscattano, e di molto, due temi – quello della democrazia e quello della parità di genere – alquanto carenti nella storia della NASA (vedi per esempio il post Donne sull’orlo dell’oblio à  LINK)       

Il primo dei due elementi è il nome dell’elicotterino - INGENUITY. Tutto sommato, il nome del Rover che si è posato sul suolo marziano PERSEVERANCE appare piuttosto banale se confrontato a quello dell’elicottero.  Ma chi ha dato il nome a questi prodotti che, in fondo, vorrebbero rappresentare l'anima stessa del progresso?

In prossimità dell’avventura marziana la NASA indisse un concorso aperto agli studenti delle scuole secondarie degli Stati Uniti per affidare a una base democratica la scelta del nome delle due unità che avrebbero lavorato sulla superficie del pianeta rosso. Parteciparono 28.000 studenti. Perseverance fu proposta da uno studente di 13 anni, Alexander Mather. La commissione giudicatrice della NASA trovò che il nome, non particolarmente fantasioso, si adattava perfettamente allo spirito di conquista che da sempre costituisce il topos e il logos della NASA e lo adottò senza esitazione. Per l’elicotterino le cose andarono, per fortuna, diversamente.

Alexander Mather: ideatore del nome di Perseverance

Tra i 28.000 partecipanti, una studentessa diciassettenne di origine indiana, Vaneeza Rupani, che frequentava la Ismaili High School di Northport, propose Ingenuity, un nome che, forse perché frutto di una cultura non ancora del tutto americanizzata, riesce a scandagliare i tratti più genuini della cultura d'adozione, rappresentandone lo spirito d’avventura a suo tempo decantato nella celebre saga televisiva di Star Trek.

Il primo equipaggio della saga di Star Trek

Alla sua proposta, Vaneeza aggiungeva una motivazione: "L'ingegnosità e la genialità delle persone che lavorano duramente per superare le sfide dei viaggi interplanetari sono ciò che permette a tutti noi di sperimentare le meraviglie dell'esplorazione dello spazio". Era sottinteso che senza una straordinaria e quasi cieca fiducia nelle proprie possibilità (qui sta la radice dell’ingenuità), è difficile perseguire i risultati più arditi.Nota 1 Un uomo, un colletto bianco della NASA, Jim Bridenstine, seppe cogliere lo stimolo - tanto tradizionale quanto innovativo - di quel nome, facendo prevalere  Ingenuity sulle migliaia di altre proposte.

In un caso come questo, vedere come il pragmatismo americano riesca a far prevalere la brillantezza delle idee sui pregiudizi razziali e di genere (e anche anagrafici) fa ben sperare: alcuni paesi europei (sorvoliamo sui loro nomi) dovrebbero imparare a fare altrettanto.

Vaneeza Rupani, ideatrice del nome di Ingenuity

Il secondo elemento nascosto tra le pieghe dell’impresa marziana appartiene alla stessa categoria di quello appena descritto, ma è ancora più rilevante.

Chi ha assistito alla diretta TV dalla NASA (o da altre emittenti collegate) si sarà forse sorpreso dall’immagine di questa signora che, seduta al tavolo della sala di Controllo della Missione, al termine del volo è balzata in piedi sorridente, molto sorridente sotto la doppia mascherina. Il suo nome è MiMi Aung.

MiMi Aung nella sala di controllo del volo di Ingenuity

MiMi Aung è nata nel 1968 nello stato dell’Illinois da genitori birmani che erano andati a studiare negli Stati Uniti. Terminati gli studi i genitori ritornarono in Myanmar, portandosi dietro la figlioletta di due anni. La madre di MiMi, Hla Hla Sein, da cui MiMi ha certamente ereditato alcune capacità, è stata la prima donna birmana a possedere un dottorato in matematica.  

 Hla Hla Sein, la madre di MiMi, appena laureata in matematica, nel 1960

Compiuti gli studi primari nella scuola birmana, MiMi frequentò poi la British high school e, a 16 anni, si trasferì presso la stessa università frequentata a suo tempo dalla madre, la Pubblica Università di Urbana–Champaign (Illinois), laureandosi in Ingegneria Elettronica con una tesi sul processo dei segnali riguardanti le comunicazioni”.

Appena laureata venne assunta dalla Jet Propulsion Laboratory, una consociata NASA con sede in California dove lavoravano 6000 (seimila !!!) ricercatori. Qui fu messa a lavorare con una squadra che si occupava di robotica spaziale. Da qui al progetto marziano, il passo fu breve, sempre che breve sia la parola giusta per descrivere l'asprezza della competizione necessaria per primeggiare nelle istituzioni scientifiche americane.

La galleria fotografica che segue riassume alcuni dei passaggi cruciali nella vita di MiMi.

MiMi con la madre. A tre anni, giunta da poco in Myanmar

A dieci anni, scuola primaria in Myanmar  

Alla NASA, parte di una equipe evidentemente multietnica

Alla NASA, direttore del gruppo di ingegneri (di ogni razza e colore) del Progetto Ingenuity 

Foto dalla pagina Wikipedia a lei dedicata

Questo è quanto. Fa piacere vedere donne che occupano posizioni di così grande responsabilità grazie alle loro capacità. Fa piacere che un grande ente come la NASA dia oggi alle donne le stesse possibilità che offre agli uomini. Dispiace solo che a loro non sia ancora data la piena visibilità pubblica che meritano. Ma anche questa, col tempo, arriverà (forse quando esse saranno così numerose da poter costruire le loro specifiche lobbies).

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Nota 1. Un aforisma di Nietzsche richiama bene questo senso di fiduciosa ingenuità tanto necessario allo scienziato: «Fino a quando continuerai a sentire le stelle ancora come cosa “al di sopra di te”, ti mancherà lo sguardo dell’uomo che possiede la conoscenza» (Al di là del bene e del male, proposizione 71).



lunedì 5 aprile 2021

INDIVIDUO, SCIENZA, LIBERTÁ – UN TIME LAPSE DAGLI ANNI CINQUANTA AI GIORNI NOSTRI

Recentemente mi è capitato tra le mani (vale a dire sullo schermo del mio computer) un fascicolo di una rivista filosofica digitale: I quaderni delle Ginestre. Quel fascicolo (2016) si intitolava Attraverso la società degli individui e presentava una serie di agili articoli sul tema dell’individuo e sul correlato tema della libertà: temi che molto hanno a che fare con la filosofia ma al cui interno, a voler ben guardare, un piccolo ruolo sociale lo gioca anche la scienza.

Nell’articolo L’Etica del Reincanto, Alberto Meschiari, (che assumerò come spirito guida di questa conversazione) espone il proprio senso di straniamento rispetto ad alcuni “valori” fondanti dell’epoca nella quale stiamo vivendo e che cozzano profondamente con quelli con cui è stato allattato chi, come me, è nato negli anni cinquanta del secolo scorso. Il punto sollevato dall’autore è semplice e chiaro: «Rispetto agli anni Sessanta e Settanta, in cui i grandi ideali sociali e politici nutrivano e stimolavano l’impegno personale e il fare insieme, a partire dagli anni Ottanta ho avvertito crescere intorno a me il disagio e lo smarrimento a mano a mano che il mercato prendeva il sopravvento sulla politica, determinando sempre più pesantemente i valori di riferimento e gli stili di vita…, tradendo quell’afflato etico che l’aveva caratterizzata nella precedente stagione, portando allo sgretolamento non solo della compagine sociale ma anche dell’identità personale…».

Ripenso, dunque, a quegli anni Cinquanta e Sessanta in cui - inconsapevole bimbetto - cominciavo a calcare la terra. Si era nel dopoguerra. La ricostruzione era in atto. Alla ricostruzione delle cose si affiancava quella dello spirito, con l’aspirazione alla conquista di un maggiore benessere e di una rinnovata libertà. In parole povere si aspirava a un mondo migliore. E la scienza che cosa ci proponeva in quegli anni? La chimica ci aveva regalato la penicillina. Scoperta negli anni trenta da Alexander Fleming e sperimentata negli anni della guerra negli ospedali militari americani, negli anni Cinquanta era diventata un patrimonio universale capostipite di altri antibiotici. Ciò consentì uno straordinario salto di qualità nella lotta contro le malattie infettive, fino ad allora il più grande flagello per l’umanità. C’era di che essere entusiasti. E ancora, nel 1950 Tadeusz Reichstein, Edward Kendall e Philip Hench ricevettero il Premio Nobel per la scoperta del cortisone, altro potente farmaco che rivoluzionò le potenzialità terapeutiche di un armamentario medico fino ad allora piuttosto modesto. Ma non finisce lì. Nei paesi industrializzati tra il 1950 e il 1960 trovò ampia diffusione la vaccinazione contro la tubercolosi. Iniziata negli anni Trenta, fu resa più efficace e sicura a partire dagli anni Cinquanta. Assieme ai farmaci tubercolostatici sintetizzati in quegli anni fu essenziale per fronteggiare una delle malattie contagiose più diffuse nel mondo. Ricordo i francobolli a sostegno delle campagne di vaccinazione contro la tubercolosi. Le famiglie erano invitate ad acquistare i francobolli e noi bambini ci rendevamo partecipi incollandoli sulla prima pagina dei nostri quaderni.

Francobolli a favore della campagna per la vaccinazione antitubercolare

In quegli anni la partecipazione solidale al benessere di tutti faceva bene non solo ai singoli, ma anche al corpo sociale e allo spirito di appartenenza. Oggi non si può dire lo stesso.

In quegli stessi anni però, la scienza aveva messo nelle mani dei potenti l’ordigno Fine di Mondo”, per dirla con le parole del Dr. Stranamore (Stanley Kubrick, 1964). La scienzaforniva al tempo stesso gli strumenti per rendere il mondo migliore debellando le malattie e quelli per renderlo assai peggiore, sterminando l’umanità o, quantomeno, tenendola perennemente sotto scacco, sospesa sull’orlo dell’abisso.

Fotogramma dal film di Stanley Kubrick, Il Dr. Stranamore

Dal punto di vista psicologico - come da quello filosofico, esistenziale e politico - gli individui avevano due buone ragioni per privilegiare lo spirito collettivo rispetto all’individuale. La prima (ottimistica) per costruire tutti insieme un mondo migliore. La seconda (pessimistica) per cercare sicurezza all’interno della propria comunità di appartenenza. In entrambe le prospettive, l’idea di libertà trovava ampie coniugazioni cariche di tensioni esistenziali e ideologiche. Da una parte, l’entusiasmo per la costruzione di un mondo migliore implicava la costruzione di un delicato rapporto tra le libertà individuali e le esigenze collettive di giustizia sociale. I movimenti di rivendicazione dei diritti sociali e di quelli civili, che vedranno la luce negli anni Settanta rispettivamente in Europa e negli Stati Uniti, trovarono una delle loro radici proprio in questa tensione tra libertà individuali ed esigenze collettive. Dall'altra parte, i timori per un mondo peggiore portarono alla strumentalizzazione del concetto di libertàFu creata una netta contrapposizione tra amici e nemici della libertà, scavando tra le due sponde un invalicabile solco ideologico tra buoni e cattivi, vale a dire tra Europei e Americani da una parte, Russi e Cinesi dall’altra. Prese di coscienza operaie e studentesche, rivolte e terrorismi di varia matrice (e non ultimi i vari fronti delle guerre indocinesi), fornivano ampia materia per entusiasmi e paure contrapposte, al cui interno chi viveva consapevolmente quei tempi costruiva e difendeva identità e valori.

Muhammad Ali (Cassius Clay), arrestato nel 1967
per renitenza alla leva per aver rifiutato di arruolarsi
per la Guerra del Vietnam

Erano anni di grandi tensioni anche attorno al senso da dare al termine stesso di libertà. In quegli anni, i filosofi francesi molto filosofeggiavano sulla libertà, così come sullo stesso tema molto poetavano poeti della Beat Generation americana. Da noi, due intellettuali mordevano il tema, addentando profeticamente il nocciolo della questione. Pierpaolo Pasolini, da una parte, prevedeva che l’allora nascente consumismo avrebbe ridotto la libertà a brandelli, trasformando un valore fondante in un riflesso del desiderio di autocompiacimento. Pasolini coniugava al presente di quegli anni la falsità di quella felicità garantita dall’alto, e assicurata da un’intera struttura sociale che non riconosce altro valore che l’immediata soddisfazione dei sensi”, preconizzata fin dagli anni Trenta da un autore il cui sguardo arrivava molto lontano (Aldous Huxley, New Brave World, 1932). Dall'altra, Luciano Bianciardi metteva in risalto la necessità di dare alla libertà un senso dinamico, quasi fosse un motore vitale da manutenere con cura, affinché non si fermasse nemmeno di fronte a quelli che potevano sembrare obiettivi raggiunti: Libertà è saper demolire, ribaltare tutto ciò che si è faticosamente raggiunto [da un ricordo personale di Luciana Bianciardi, figlia dell’omonimo scrittore  (LINK della fonte)]. 

Gli anni Sessanta furono anche quelli del DNA, la doppia elica di Watson e Crick e del loro premio Nobel. La doppia elica, e il Progetto Genoma che sarebbe arrivato più tardi, erano gravidi di promesse, molte delle quali sono state mantenute. Ma accanto a queste nascevano anche nuove questioni, prima fra tutte quella sul determinismo genetico, un oggetto pericoloso e foriero di impegnative conseguenze, per esempio sugli aspetti giuridici della responsabilità e su quelli filosofici sulla libertà.

Determinismo genetico: immagine allegorica

Gli anni Settanta furono bui e turbolenti, portatori di sviluppo ma anche di inquietudine: anni di transizione e di tecnologia. Qualcosa stava cambiando. Ma cosa, e come?

Arrivarono gli anni Ottanta. All’esterno successero varie cose. La rivoluzione persiana degli Ayatollah con la conseguente sconfitta della libertà. Più tardi, la caduta del muro con l’altrettanto conseguente vittoria della libertà. Venne poi la pecora Dolly, con tutti i suoi inquietanti problemi, tra cloni e incubi distopici di varia natura. Ma la crisi doveva arrivare dall’interno del corpo sociale. Le speranze frustrate e le tensioni accumulate nei decenni precedenti implosero, trascinando con sé sogni e valori. Dal mucchio di macerie emerse vigoroso il mito dell’io, dell’individuo al di sopra degli altri, delle libertà individuali a scapito del bene comune, quale che fosse.

Un miscuglio di crisi e nuove speranze animò gli anni Novanta. Mani pulite ridusse in polvere la cosiddetta prima repubblica, sostituendola con una non certo migliore, anche qui all’insegna della libertà, con i Partiti, i Popoli, le Case della Libertà, e tutto ciò che ne è conseguito. Ma fu anche il decennio in cui nacque L’Unione Europea, con la libertà di movimento per cose e persone. Nacque anche un nuovo, straordinario, e fantascientifico simbolo di libertà. Grazie alla scienza e alla tecnologia, il 6 agosto 1991 nacque un segno e un simbolo: il www (world wide web). Abbiamo finalmente il mondo in pugno (ma sorge anche il sospetto che sia lui ad avere in pugno noi). 

La successiva decade si apre con una data fatidica: 11 settembre 2001. Un bello scossone per noi, per la libertà, per i nostri sogni, per l’idea di futuro e per quella che abbiamo di noi stessi, sempre in bilico sull’orlo dell’abisso.

«Guardandomi attorno», afferma Meschiari nel suo articolo, «oggi mi pare di leggere su molti visi ogni giorno di più i segni di un sofferto “vuoto esistenziale”». Le esperienze del mondo, sembra dire, ci hanno ferito: siamo diventati disincantati e «forse abbiamo spinto troppo innanzi, con un’intenzione cieca e caparbiamente autodistruttiva, il nostro disincanto: niente ci colpisce profondamente, niente ci tocca veramente, tutto ci è indifferente allo stesso modo. Ostentiamo perfino con sfrontatezza il nostro disincanto come un segno di virilità e di emancipazione». Come dargli torto? Aveva ragione Pasolini: siamo stati svuotati (col nostro consenso, per giunta) della nostra autonomia e veniamo sballottati qua e là da giochi di potere che ci usano come birilli. E non abbiamo nemmeno seguito l’esortazione di Bianciardi: non abbiamo ribaltato un bel nulla, soprattutto dentro di noi, per la paura di perdere qualcosa che credevamo ci appartenesse. Bravi asini: non possiamo neanche lamentarci! E invece lo facciamo, perché è l’unica cosa che molti di noi sono ormai in grado di fare.

Per fortuna la scienza ci dà una mano. Ci dà una mano perché ora, finalmente, siamo in tanti, tutti connessi tra noi. Popolo di tutto il mondo, unitevi! Slogan sorpassato, questo. Siamo già tutti uniti e connessi ma, come dice saggiamente Meschiari: «Siamo costantemente connessi con l’esterno, mai con la nostra interiorità». Ci siamo quasi esternalizzati da noi stessi, si direbbe. Ci siamo ridotti a cose: iperconnessi, sì, ma sempre cose. E questo essere cose è il vero trionfo dell’individualismo. Connessione è cosa ben diversa da Relazione.

E veniamo agli anni più recenti che, dal punto di vista delle scienze, sono quasi l’apoteosi di un avvenire ricco di conquiste e di sapere. Chi mi conosce sa che sono un propugnatore della comunione e della commistione tra scienze dure e scienze umane. Tuttavia … c’è sempre un tuttavia …

Osservo un titolo di una pagina ANSA che recita La scienza favolosa dei primi 20 anni 2000. L’articolo mi informa che negli ultimi anni 1) l’intero genoma umano è stato mappato; 2) è stata ottenuta la prima cellula sintetica, chiamata Syn 1.0; 3) è stato finalmente individuato il bosone di Higgs, Sacro Graal (sic) della fisica delle particelle; 4) al CERN di Ginevra sono riusciti a produrre e a intrappolare (conservare) atomi di antimateria; 5) l’11 febbraio 2016 sono state rilevate per la prima volta le onde gravitazionali; 6) il 10 aprile 2019 è stata eseguita la fotografia impossibile: quella di un buco nero.

Buco nero M97 fotografato dall'Event Horizon Telescope (EHT)

Naturalmente c’è molto di più di questo. Per esempio, l’intelligenza artificiale e l’interazione uomo-macchine comincia ad appartenere al presente e non solo alla fantascienza. Le auto si guidano da sole e i razzi atterranno verticali nello stesso modo in cui partono. Il 60% dei tumori risulta guaribile e si possono costruire farmaci antineoplastici personalizzati. La scienza avanza, dunque, e ne godremo certamente i benefici. Tuttavia il solco tra scienze dure e scienze umane si allarga. È quasi impossibile mettere in relazione le scienze umane – fondamentalmente tese a rispondere a quesiti universali e a indagare quelle incerte aree dell’essere che di volta in volta prendono il nome di anima, spirito, interiorità – col sapere sull’antimateria, sulle onde gravitazionali, sui buchi neri.

La nostra identità – e con essa i punti di riferimento, i valori e le relazioni interpersonali – richiederebbe una certa unitarietà tra quello cha appartiene al corpo (questioni fisiche e biologiche incluse) e quello che appartiene allo spirito. Questa unitarietà si va scompaginando. Anche il più recente accadimento di questo secolo all’esordio - la pandemia da Coronavirus (accadimento insieme scientifico e umano) - invece di far tendere l’ago della bilancia verso un recupero dell’unitarietà persevera in direzione opposta: quella della divaricazione. Nel nome di una perduta libertà, gli individui rivendicano il diritto (in teoria legittimo e sacrosanto) alla socialità, non fosse però che, già prima della pandemia molti scambiavano la necessità di “condividere qualcosa di sé con gli altri” con l’utilizzo strumentale degli altri per dare libero sfogo al proprio edonismo. Il diritto alla socialità viene da taluni rivendicato e difeso come diritto inalienabile, hic et nunc, anche a scapito del serio rischio sanitario collettivo. Questo male sociale era manifesto ben prima dello scoppio della pandemia, che l'ha solo reso più evidente. E mentre i singoli e la collettività intera sono alle prese con questo problema che è insieme sociale e identitario e che mette in gioco valori, la scienza – mentre fa il suo mestiere di cercare soluzioni tecniche per rallentare la diffusione del morbo – sembra occuparsi molto del morbo e poco delle persone, mantenendo quella sorta di disumanizzazione di cui la medicina ha iniziato a soffrire da qualche decennio, a causa soprattutto delle iperspecializzazioni, come aveva preconizzato molti anni or sono l’epistemologo milanese Felice Mondella.

Felice Mondella nel suo studio milanese

Era sembrato, un anno fa, che la pandemia avrebbe potuto essere l’occasione per una grande riflessione collettiva che potesse portare a una revisione dei valori fondanti della società umana nella quale le esigenze collettive e quelle individuali potessero ritrovare un equilibrio solidale. In questo quadro idilliaco, scienza e filosofia, corpo e spirito, avrebbero dovuto ricreare antiche e perdute alleanze. Ci eravamo illusi. Forse la scamperemo ancora una volta anche senza procedere a una grande riflessione collettiva, ma un ripensamento globale è urgente e ineludibile, anche per tutte le sfide che là fuori ci attendono, cambiamento climatico incluso.